I cieli narrano la gloria di Dio
e l’opera delle sue mani dichiara il firmamento.
Giorno a giorno ne dà l’annuncio
e notte e a notte ne trasmette la notizia.
Non è loquela e non sono parole
di cui non si intenda il suono.
In tutta la terra esce la loro gittata
e ai confini dell’orbe le loro parole.
Per il sole fissò in loro una tenda
ed egli, come sposo che esce dal talamo,
si allieta qual prode a correre la via.
Dall’estremo dei cieli la sua aurora,
e la sua orbita fino ai loro confini,
né c’è rifugio dal suo calore...
David, probabile autore di questo salmo di lode della divina giustizia, si avvale di immagini splendide ed eleganti per proporci un’esemplare interpretazione religiosa dell’universo. Anch’egli, come Dante (Purgat. XXX, 93 e Parad. I, 76-78), attraversando i cieli, sa ascoltarne non tanto il canto, quanto percepirne un vero e proprio 'discorso' che narra e dichiara la gloria di Dio.
Ed ecco il “giorno” che lancia il suo messaggio al “giorno” successivo e la “notte” che, con le sue tenebrose profondità trapunte da luci arcane, ne parla alla”notte” seguente. E tanto chiare sono le parole di questo linguaggio che non può esister parte dell’Universo dove esso non risuoni...
Il salmo prosegue poi con sei distici che celebrano oggettivamente la 'legge' attraverso cui Dio comunica con noi, con una luminosità assimilabile a quella della luce del sole, il vocabolo certamente più potente del linguaggio dei cieli; l’autore chiude quindi la sua meditazione volgendo su di sé lo sguardo: egli vede in sé ferma la luce divina, eccellente e dolce, e sente che praticandola Dio gli concede un premio sublime di pace e vigore morale che va sempre rafforzandosi. Ma ha anche coscienza della facilità con cui potrebbe scivolare nell’errore e nel peccato e pertanto implora così Jahvé: E dall’orgoglio trattieni il tuo servitore; perché non mi soverchi... (Sal. 19, 14).
Ed è qui pertinente la bella espressione dantesca: 'In la sua voluntade è nostra pace' (Parad. III, 85).
Sono partita dalla lettura di un salmo per arrivare a parlare del rapporto tra la Teologia e l’Astronomia, nobilissima scienza che forse più di ogni altra umana disciplina solleva gli animi dei mortali alla contemplazione delle cose celesti.
Christopher J. Corbally S. J., astronomo della Specola Vaticana (1), ricorda che la fede non dà prove a favore né della Scienza né della Teologia, ma fornisce la base alla razionalità che rende possibile la ricerca scientifica. L’Astronomia dal canto suo porge un grande aiuto alla fede, ben evidenziando alcuni concetti dottrinali (trascendenza, immanenza, diversità delle creature) e contribuendo ad approfondire il modo più consono per accostarsi alla rivelazione, alla contemplazione ed alla responsabilità.
Il filtro della fede pertanto diviene strumento indispensabile anche per lo scienziato che studia il cosmo: gli conferma infatti che il mondo è venuto ad esistere in conformità a principi razionali e che perciò deve possedere un’intelligibilità immanente.
Il filtro della fede inoltre suggerisce allo scienziato quella modestia e quell’umiltà che sole possono permettergli di cogliere i limiti intrinseci della scienza, incapace comunque di dare risposte assolute a tutte le domande. A questo proposito mi sembra opportuno citare il mistico Hans Urs Von Balthasar: 'L’umiltà non è una virtù, ma la conoscenza che ogni virtù ci manca. E quando la si chiama fondamento di tutte le virtù, sarà bene stare attenti se su quella conoscenza si possa costruire'. Il Vangelo è una scuola del servizio di Dio.
Il filtro della fede aiuta infine ad accrescere il senso di responsabilità, mediante il concetto religioso del dovere di amministrare con rigore i beni del creato a disposizione dell’uomo. Ogni mondo che conosciamo come 'altro' per noi, ci rende visibile la singolarità della nostra propria esistenza, mediante cui siamo solo 'un' mondo e non 'il' mondo, ma ci eleva proprio per questo come conoscenti dell’unico mondo universale, per il quale tutti sono delle possibilità e realtà particolari. Questo concetto, tratto dal pensiero filosofico di Jaspers, forse risulta difficile, ma certo dovrebbe farci riflettere.
Gli astronomi non possono quindi solo osservare romanticamente il cielo al telescopio, ma devono guardare anche verso la Terra che abitano: non solo 'contemplazione' e 'preghiera' rivolte al Creatore che ha plasmato per noi l’impressionante immensità dell’Universo, lo splendore degli astri, lo sfavillio delle notti stellate, ma anche 'azione' nel far amministrare con saggezza i doni che ci sono stati offerti.
Nel concludere queste poche note dedicate alla Scienza dei cieli, vorrei proporre una splendida poesia del francese Renè Daumal, intitolata 'Il Monte Analogo', testo di cui sono venuta a conoscenza grazie all’astronauta Franco Malerba, che – primo italiano – ha volato a bordo dello Space Shuttle Atlantis come ingegnere del carico utile, dal 31 luglio all’8 agosto 1992, per sei milioni di chilometri attorno alla Terra. Proprio sul ponte di volo della navetta spaziale, da quello straordinario pulpito a duecento chilometri dalla Terra, in caduta libera attorno al nostro pianeta, il Comandante della missione gli consegnò un cartoncino con quei versi, consacrazione della 'vetta' raggiunta: dedico a tutti i lettori questo brano perché ognuno di noi, anche se non astronomo e non astronauta, infondo nella vita ha comunque una sua 'vetta' da raggiungere per imparare a conoscere sempre più se stesso.