Il peccato del nostro secolo è la perdita del senso del peccato.
(papa Pio XII, 1946)
Umberto Galimberti [1], nel suo saggio 'I vizi capitali e i nuovi vizi', ambienta i vizi nel panorama contemporaneo per esserne almeno consapevoli e non scambiare per ‘valori della modernità’ quelli che invece sono solo i suoi disastrosi inconvenienti.
Significative le contraddizioni emergenti dai vizi ‘nuovi’ (perché non hanno storia come quelli capitali), esempi di dissolvimento della personalità propri del nostro tempo, in cui si ha troppo spesso la sensazione di scivolare, con una strana indifferenza, soggiogati da un continuo spostamento di impulsi insaziabili da una cosa all’altra [2], nella spasmodica ricerca di un cammino da srotolare più che da percorrere. Esaminerò brevemente solo alcuni tra i nuovi vizi, ricordando però che il loro numero è assai elevato (la sociopatia, la spudoratezza, il consumismo, il conformismo, la sessomania, la voluttà dello shopping, la dipendenza dagli oggetti di moda, il culto del vuoto...)
Nella nostra società esistono bisogni del tutto artificiali, indotti per lo più dalla pubblicità e dall’anelito di esser identificabili entro uno status distinguibile e invidiabile. Eppure, pur inutili, questi bisogni non soddisfatti, provocano frustrazioni e malesseri. Ecco perché diventa importante non smettere di farsi domande, per tentare di capire fino a che punto noi stessi contribuiamo a incrementare – e a mantenere – questo stato di sofferenza. Il saggio cerca di raggiungere l’assenza di dolore, non il piacere... Aristotele è ancora attuale.
Conformismo
Ogni persona dovrebbe saper vivere per se stessa, dunque non solo per il lavoro, ma anche per le relazioni, per gli affetti e per il tempo del loisir. Spesso si sa come si vive, ma, paradossalmente, non si sa come si è vissuti, perché ci si è lasciati trasportare dal vortice dell’ovvio, dello scontato, del banale, dell’uniformità, dell’imitazione, col risultato di conformarsi [3], anziché formarsi nella propria dimensione umana, nella logica dell’avere/incorporare/consumare e non dell’essere/divenire [4]. In questa standardizzazione generalizzata, che inesorabilmente finisce per appiattire le scelte e disegnare esistenze prive di originalità, impregnate di mediocrità e convenzioni, si pensa che sia qualificante perseguire l’addestramento, la professionalizzazione, la specializzazione estrema. Questa tendenza ‘collettiva’ – tratto comune a tutti i vizi ‘nuovi’ – all’omologazione, è talmente radicata nel nostro tempo che gli ‘anti-conformisti’ sono considerati ‘anormali’.
Ecco che anche nel mondo del lavoro, le azioni diventano conform-azioni entro e in funzione di un apparato in cui tutto, o quasi, è previsto/prevedibile, che la coscienza della persona si riduce a coscienziosità nell’esecuzione e che lo scopo del lavoro viene separato da ciò che viene richiesto per raggiungerlo: ‘esonerate’ dal sapere quello che fanno, le persone finisco per compiere azioni ‘irresponsabili’, non essendo loro richiesta la responsabilità dello scopo. Paga invece l’uniformità più rigorosa, l’adattamento alle esigenze di tutti, rinunciando evidentemente alla realizzazione di se stessi, in un’ottica di ‘sano realismo’! Tutto è strutturato per convincerci che viviamo nell’unico mondo possibile (la libertà è davvero un’illusione, visto che non esiste la possibilità di scegliere tra scenari diversi!), non in ‘uno dei possibili mondi’, motivo per cui non si percepisce come coercitivo questo forzato adattamento, ma lo si indossa come se fosse l’unico modus vivendi [5].
Altro paradosso è dato dal fatto che è l’assenza a rendere visibile la presenza: in altre parole, solo quando manca la fornitura di energia elettrica o quando scioperano i mezzi di trasporto riusciamo a renderci conto di quanto siamo dipendenti dalla tecnologia, dalla tautologia della comunicazione che i media selezionano e forniscono e dall’economia globalizzata. Non ne può conseguire che una serie di incapacità e perdite: una sorta di afasia generalizzata dell’anima, in cui individualità e specificità sempre più difettano, il declino della psicoanalisi come indagine sul proprio profondo a favore del cognitivismo e del comportamentismo, più adatti a ridurre le dissonanze cognitive rispetto all’ordinamento funzionale del mondo e ad adeguare le proprie condotte, indipendentemente dai propri sentimenti più autentici e dalle proprie sacrosante idee. Non stupiscano dunque i crolli psichici, le evasioni patologiche nell’irrealtà, l’inerzia dei malesseri mentali così diffusi!
La grande illusione che il progresso tecnologico illimitato portasse felicità, attraverso la soddisfazione di tutti i desideri e ristabilisse la pace sociale e l’armonia Uomo-Natura è ormai incontestabilmente fallita. L’uomo contemporaneo è diventato un ingranaggio della macchina burocratica, alienato, manipolato, esposto a danni ecologici, psichicamente triste e depresso, isolato e preda di impulsi distruttivi. La necessità di un cambiamento dipenderà allora dalla radicale trasformazione del cuore umano, che sceglierà coraggiosamente di volere essere ‘non conformemente’ se stesso, distinto nella sua unicità e autentico nella sua originarietà.
Diniego
Dal latino de negare: ‘dire di no’, questo vocabolo ci porta a riflettere su un altro ‘nuovo vizio’ del nostro tempo, che consiste nel negare, nelle forme più diverse e ipocrite, l’esistenza di ciò che esiste e che si conosce. Lo citiamo in questa analisi, perché anche nei luoghi di lavoro può causare malesseri e sofferenze, data la sua frequenza[6]. Così, pur essendo comune la conoscenza di un livello sotterraneo di eventi deprecabili, abusi di potere, violenze psicologiche, in superficie si mantiene un atteggiamento generale e tacitamente condiviso di assoluta normalità. L’indifferenza, la freddezza, la solitudine quindi vincono sulla responsabilità, sul coraggio, sul sentimento d’appartenenza a una comunità che condivide obiettivi e mete.
Il diniego (Verleugnung) appartiene ai meccanismi di difesa [7], per la maggior parte individuati già da Freud, adottati dal nostro Io per conservare se stesso, in situazioni disturbanti; è un autoinganno inconscio, che si innesca quando non si è in grado di reggere la verità, una manifestazione di fragilità psichica. Ovviamente assume forme camuffate per rendersi il più possibile irriconoscibile, ma spunta in una gran quantità di locuzioni verbali del tipo: ‘distogliere lo sguardo’, ‘faro lo struzzo’, ‘chiudere un occhio’, ‘voltarsi dall’altra parte’, etc. Stanley Cohen, professore di Sociologia alla London School of Economics and Political Science, ha elaborato una sorta di sociologia del diniego [8], per studiarne gli effetti e tentare di comprendere l’incapacità (se non il rifiuto) tanto attuale di guardare in faccia la realtà della sofferenza (nostra e altrui). Perché si evita – coscientemente o no – di confrontarsi con realtà scomode o decisamente dolorose?
Davanti a situazioni di conflitto o a emergenze emotive, anche in ambito lavorativo, troppo spesso le persone restano apatiche, passive, indifferenti e insensibili e si danno razionalizzazioni convenienti per spiegarsele. Così, invece di elaborare inquietanti vissuti di impotenza, ansia o rabbia, il diniego consente di raccontarsi che ‘quel qualcosa’ non è accaduto, non esiste.
Dal diniego al discredito, ossia l’atto di togliere ad altri la reputazione, il passo è breve e connota una realtà disastrosa, poiché toglie speranza a ogni eventuale possibile reazione atta a invertire il corso degli eventi.
Spudoratezza
La psicoanalista e psichiatra Monique Selz, nel suo libro Un luogo di libertà [9] affronta il tema del pudore: viviamo, a suo dire, in una dittatura della trasparenza, in cui mostriamo e guardiamo tutto, senza interiorità. In una società come la nostra, improntata a una sfrenata corsa all’esibizione, dove tutto viene messo in mostra per stimolare il desiderio di possesso e dove gli individui sono ridotti all’unica funzione di consumatori, lo spazio intimo del singolo assume pertanto i contorni di un inutile, anacronistico lusso. Al contrario la vita in comune è resa possibile proprio dal sentimento del pudore, che si fa garante di libertà [10] e di maturità.
Così è ascrivibile proprio al conformismo e al consumismo la colpa di quel vizio ‘nuovo’ che qui indichiamo come spudoratezza [11], con riferimento non tanto a uno scenario sessuale, quanto al crollo di quelle pareti che consentono di distinguere l’interiorità dall’esteriorità, la parte discreta, singolare, privata, intima di ciascuno di noi dalla sua esposizione e pubblicizzazione.
Ripensare il destino del «comune senso del pudore» e le modalità della sua salvaguardia significa allora vigilare su uno spazio irriducibile, pur nella sua fragilità e delicatezza, entro cui le persone possono riconoscersi. Solo così sarà possibile difendere quel nucleo profondo, in cui l’identità della persona decide quale tipo di relazione vuole instaurare con l’altro.
Il mondo dell’organizzazione non è certo estraneo a questo argomento, data la grande varietà di modi con cui le tendenze aggressive che si possono presentare nelle interazioni sociali sono in grado di ‘esporre’ e ‘pubblicizzare’ aree strettamente private, nonché influenzare credibilità e fiducia. Vale naturalmente anche il contrario: chi non irradia una luce attraente, chi non sa mettersi in mostra, può restare invisibile, non sollecitare l’attenzione magari sulle sue pur concrete competenze professionali o umane e rischiare di non venir coinvolto appieno nei processi lavorativi. Per esserci bisogna apparire! Ecco che conformismo e omologazione lavorano per evitare che ogni interiorità si faccia impedimento, che ogni riservatezza celi un possibile tradimento, per connotare positivamente invece le esibizioni di sé come fatto di manifesta lealtà, se non addirittura di autentica salute psichica.
Di intimo così resta solo la sofferenza, che invece avrebbe immenso bisogno di comunicazione, per diluire gli effetti devastanti della solitudine che comporta, e viene invece tenuta nascosta perché andrebbe ad aumentare ancor di più i motivi del disagio. Il pensiero va qui al tasso inquietante di suicidi [12], ‘anche’ causati da frustrazioni lavorative pesanti o dalla perdita dell’occupazione. Il silenzio, in questi drammatici casi, diventa l’ostinato tentativo finale di difendere il proprio dolore, che rende definitivamente incapaci di espressioni ancora vitali.
Indifferenza
L’indifferenza non è una malattia, è un sentire reso orfano della possibilità d’agire. È il copione emozionale che regola il vissuto e l’espressione delle emozioni, che subentra ‘dopo’ l’indignazione, lo sconcerto, il giudizio morale e in pratica chiude la porta al resto della comunità in cui viviamo, all’ambiente che ci circonda, alla società che non perdona l’audacia di immaginare la vita in un modo diverso da quello che essa stessa impone. L’indifferenza non guarda il mondo (tutt’al più lo rispecchia), insomma, anche quando lo vede.
L’indifferente [13] è colui che dà uguale valore alle cose e non è in grado di percepire alcuna differenza tra di loro: il suo sguardo è assente e distratto e non sente l’esigenza di intervenire, né con il corpo, né con l’anima. È un ‘deviante emozionale’, come acutamente lo definisce lo psicologo sociale Adriano Zamperini [14].
Non dobbiamo cercare questo vizio solo nelle classiche filosofie dell’indifferenza (stoicismo, cinismo, un certo misticismo cristiano...), perché, essendo uno stato di inerzia lo si ritrova in ogni occasione dove prevale la mancanza del cambiamento. Quindi anche negli ambienti di lavoro.
Si tratta di un vuoto stracarico di rinuncia, di un’atrofia dei sentimenti, di un’incompiuta crescita emotiva, di un’assenza di gravità propria di chi si muove tra gli altri suoi simili come in uno spazio in disuso. Progetti mai irrigati che alla fine si dileguano, passioni prima affievolite e poi definitivamente spente, incertezze che disgregano i sogni di un lontano passato, infedeltà ai modelli introiettati, tappe inconcluse di un viaggio senza più meta.
Ecco che una moltitudine di ‘indifferenti’ – come nel titolo del celebre romanzo di Moravia – vive in stand by in una terra di nessuno dove nè la famiglia, né gli amici, né i colleghi di lavoro svolgono più alcun richiamo. Il senso di sé si smarrisce. L’autostima deperisce. Il virus dell’incompiutezza abita ogni residua impazienza, che mi piace chiamare speranza.
Competitività
Noi, figli della cultura occidentale [15], siamo ossessionati dall’idea del competere [16], tanto che le nostre eventuali ‘sconfitte’ sono attribuite alla nostra morale o alla nostra incapacità. Ottenere alti compensi per ricoprire un incarico di prestigio, fondare un’organizzazione, pubblicare un libro… in fondo non dimostrano altro che questo. Vincere è decisivo in politica, in un concorso per un posto di lavoro, nella scuola, nel marketing, nello sport [17] ma il gioco – prestazione, performance, primato da raggiungere – è fondamentalmente truccato ed è difficile ipotizzare competizioni pure. Ogni eccesso, inoltre, purché conduca al successo, viene giustificato.
L’universo di valori che trasmette gli imperativi quotidiani del successo personale, della competizione e del consumo sembra essere quindi ampiamente accettato e condiviso e la vita degli individui tutta un susseguirsi di cimenti, volti ad ottenere risultati più brillanti rispetto a quelli degli altri.
La competizione non premia davvero sempre i migliori: in economia, per esempio, l’imprenditorialità geniale o più lungimirante negli investimenti, viene battuta da quella che può vantare una rendita di posizione, una linea di credito agevolato o una ‘soffiata’ sulle previsioni di mercato; nella scuola, solo raramente riesce ad emergere lo studente più dotato, mentre sono indubbiamente molto favoriti quelli con un capitale culturale (come direbbe il sociologo Bourdieu) e uno status sociale più elevati; nello sport poi i vincenti sono gli atleti allenati e seguiti dal team di specialisti più efficiente e con più mezzi economici a disposizione. Non si può dire che questa sia una riflessione confortante...
Sostenere che la competizione non faccia parte della natura umana sarebbe tuttavia arduo, dal momento che senza la più antica tra le forme di competizione – la selezione della specie – l’umanità stessa non esisterebbe affatto; semmai è l’arrivismo (e la scia di complicanze che si porta appresso) a non esistere in natura, ma ad essere il risultato di codici di comportamento quasi esclusivamente dettati dalla società e dalla cultura.
Si può qui innestare un’ulteriore considerazione: nella cosiddetta ‘morale del risentimento’ chi ha successo, è bello, forte e vittorioso è spesso condannabile [18] – non può avere il cuore puro! –, cercando di leggere come vizi quelle che potrebbero invece essere autentiche virtù! Troviamo allora un collegamento tra competitività e invidia e ci accorgiamo che quest’ultima può persino diventare un vero e proprio ostacolo sociale. L’invidioso, davanti alle difficoltà suscitate dal confronto impietoso e dalla competitività, cerca di distruggere il suo rivale, che nel suo intimo ammette essere migliore. Rinuncia ad agire, rinuncia alla meta, ritiene impossibile la rivincita e vuole che nemmeno l’altro ottenga ciò che lui non riesce ad ottenere. Ecco perché una società che ammira il successo, stimolando sia l’emulazione che l’accettazione e l’ammirazione del valore di chi se lo merita, è meno propensa all’invidia. Le persone, per vivere, devono poter dare un senso alle loro azioni, hanno bisogno di un ordine morale, ossia devono poter credere che esista un rapporto fra ciò che fanno e ciò che ottengono, una relazione tra azione, merito e ricompensa. Questo accade nelle famiglie, nelle organizzazioni, nelle imprese, in cui il funzionamento è legato al dare ai loro membri l’impressione che le ricompense vengano distribuite al loro interno secondo una precisa regola di ‘giustizia’: quando questi ordini morali sono precari e fragili, il terreno si fa fertile perché vi cresca l’invidia.
Oggigiorno si registra una nuova forma di ‘competizione’ nel lavoro: quella fondata sulla qualità, sull’apprendimento continuo, sulla formazione permanente. Occorre infatti rendere più autonomo il lavoratore rispetto all’organizzazione. Il ‘posto fisso’ di un tempo è risultato talvolta un abuso di garanzia, inducendo erroneamente molti lavoratori a rilassarsi nel lavoro[19]; coloro i quali ieri hanno ottenuto diritti e privilegi, oggi continuano a lottare per preservarli, ma il costo è spesso trasferito dall’azienda sui lavoratori precari. Oggi il lavoro più che essere carente, si è trasformato e l’unica soluzione pare consistere nella specializzazione (non certo accessibile ai più), mirata alla ‘para-autonomia’, più che alla ‘para-subordinazione’: ovvio che la competitività si manifesti in queste dinamiche tanto complesse, in cui l’intraprendenza personale sembra essere l’alternativa migliore.
© all rights reserved
note
[1] Filosofo e psicanalista italiano (ha rivolto forte attenzione all'insegnamento junghiano), al centro dei cui interessi sta l’Uomo, che in un mondo dominato dalla tecnica si sente un mezzo nell'universo dei mezzi, senza poter trovare un senso al suo esistere.
[2] Per esempio: un’insoddisfazione affettiva può portare a trasferire il desiderio sul cibo, sulla carriera o sul possesso di ‘cose’.
[3] Con conformismo si intende un comportamento manifesto, coerente con una norma sociale che, in realtà, non viene intimamente condivisa.
[4] Erich Fromm, in Avere o essere? esamina le due modalità esistenziali, basate rispettivamente sulla brama di possesso di oggetti e potere, sull’egoismo, lo spreco, l’avidità e la violenza, opposta a quella fondata sull’amore, la gioia di condividere, l’attività autenticamente produttiva e creativa, della quale hanno parlato i grandi Maestri di vita e di pensiero.
[5] Già Freud, in alcuni suoi saggi, tra cui Il disagio della civiltà (1929), Psicologia delle masse (1921), L’avvenire di un’illusione (1927), criticava le ipocrisie della società occidentale e rifletteva sulla mancanza di spontaneo amore verso il lavoro.
[6] Purtroppo la cronaca ci ricorda che i membri di molte famiglie mostrano una sorprendente capacità di ignorare - fingere di ignorare - quali sofferenze o tremendi abusi accadano davanti ai loro occhi, talvolta con conseguenze drammatiche.
[7] Tra essi: la Negazione (la rappresentazione che evoca angoscia accede alla coscienza, ma non è ritenuta come propria), la Proiezione (il soggetto localizza fuori di sé, in persone o cose, ciò che rifiuta o non riconosce come proprio), la Razionalizzazione (spiegazione logicamente coerente e moralmente accettabile di un comportamento, sentimento, sintomo di cui non si vogliono scorgere le motivazioni profonde). l’Onnipotenza (sentimento e/o pensiero di controllo di alcuni aspetti o dell’intera realtà con ipervalutazione delle proprie qualità e possibilità), la Svalutazione di Sé (sottovalutazione non giustificata di Sé, causata da sentimenti di inferiorità e/o di colpa), la Svalutazione dell’Altro (sottovalutazione non giustificata dell’altro), l’Idealizzazione (sopravvalutazione non giustificata di una persona, cosa o situazione, in genere per un notevole investimento affettivo), la Rimozione (per mantenere fuori della coscienza le rappresentazioni angosciose)...
[8] Ne parla nel suo libro Stati di negazione.
[9] Einaudi, 2005.
[10] Difendendo l’Intimo, che è ciò che si nega agli estranei e si riserva invece a chi si vuol fare entrare nel proprio mondo segreto. Il pudore quindi non è una faccenda di abbigliamento, ma un vigilare per mantenere la propria soggettività, in modo da essere sempre e comunque se stessi in presenza degli altri.
[11] La spudoratezza fa pensare anche alla vergogna – dal latino vereor gognam, temo la gogna, l’esposizione pubblica –, che il pudore avverte come più disdicevole della colpa. Non vergognarsi quindi significa non temere l’esposizione agli altri, facendo della spudoratezza non solo una virtù, ma una prova di sincerità e innocenza. Oggi giorno ‘riservatezza’ per l’opinione pubblica equivale sempre più a colpevolezza.
[12] émile Durkheim, nel suo celebre studio su questo argomento (Le suicide, étude de sociologie, 1897), ritiene il suicidio anomico (suicidi da crisi di prosperità, piuttosto che da delusione rispetto alle ambizioni coltivate) risultante di uno squilibrio del legame sociale. I media riportano spesso la notizia che per esempio i ritmi frenetici a cui sono sottoposti i lavoratori nipponici sarebbero la causa di un notevole incremento dei suicidi – karojisatsu – oltre che di malattie, legati al lavoro, ma anche in Europa purtroppo non mancano suicidi da stress o da disoccupazione.
[13] In latino contemptus (da cui deriva l’inglese contempt) indica ‘apatia’, ‘impassibilità’, ‘distacco’, ‘insensibilità’.
[14] L’indifferenza, Einaudi.
[15] Gli americani, assai più di noi italiani, ritengono che la competizione sia utile, che chi fa meglio debba guadagnare - meritocraticamente - di più e ricevere più onori; in compenso sono molto sensibili all’idea di equità e sono convinti che nessuno si debba sottrarre alla concorrenza. Va detto ancora che una società che teme la concorrenza, paradossalmente, è più insidiata dall’invidia (in F. Alberoni, L’ottimismo, 1995).
[16] Dal latino petere cum: ‘andare insieme’, ‘convergere a un medesimo punto’ quindi concorrere, gareggiare, disputare.
[17] La competitività tipica dello sport nasce dal conflitto (A. Dal Lago), che qui viene circoscritto da regole precise che lo trasformano appunto in competizione. Ecco che il ‘conflitto regolato’ dello sport si configura come una metafora della società, ossia come una simulazione - lo stadio ne rappresenta il tempio massimo. Se si vede il confronto come basato su norme condivise, esso contribuisce al rafforzamento del proprio Sé, della propria autostima e pone alla coscienza anche il valore dell’altro. Secondo G. Ricci (1988), più che di un’educazione alla vittoria o alla sconfitta, pertanto si dovrebbe procedere nel senso di un’educazione alla competizione come parte integrante di un’educazione etica (in Peirone, Ferrari, 2006).
[18] Se pure in modi diversi, tanto il cattolicesimo che il marxismo hanno rafforzato questo tipo di lettura.
[19] Di grande attualità la polemica e l’attenzione politica sui disservizi nelle pubbliche amministrazioni.