I film ci appaiono reali, eppure sappiamo bene che sono creazioni artificiali: perché, pur restando fermi nelle nostre poltrone, abbiamo la sensazione di muoverci e orientarci nello spazio virtuale dello schermo? È Edgar Morin a evidenziare il legame strutturale tra cinema & immaginario, descrivendo il cinema come un meccanismo che riattiva processi profondi della psiche. Elemento intermedio tra reale e fantastico, l’immagine ha un ruolo centrale nella conoscenza. In quanto spettacolo immaginario, il cinema implica una percezione realizzata in stato di doppia coscienza: l’illusione di realtà è inseparabile dalla coscienza che si tratta effettivamente di un’illusione. In questo modo il cinema mette in gioco qualcosa di magico, che ci permette di entrare in un mondo nuovo senza sentirci spaesati.
È sempre più viewer-oriented la prospettiva dello studio dei film nel terzo millennio, incentrando le proprie analisi sulla percezione delle immagini in movimento, sulle rappresentazioni mentali e sulla comprensione narrativa alle emozioni che lo spettatore esperisce nel corso della visione. Costui va ritenuto un’entità variabile nei confronti del testo filmico (proiettato per un numero indefinito di spettatori e in diverse sale cinematografiche e/o tramite altri device) così come il film si pone come un testo variabile nei confronti di una sola persona che fruisce diversi film.
In sala l’oscurità crea una condizione di sospensione: l’ambiente perde di spessore, e diventa un contenitore indistinto; gli individui perdono coscienza di sé ed entrano in una sorta di stato ipnotico. E proprio questa sospensione permette agli spettatori di far corpo tra loro, fino a creare una piccola comunità, e, insieme, di essere una sola cosa con quanto stanno vedendo, immergendosi nelle vicende raccontate sullo schermo. [1] Nella rilocazione del cinema ‪verso nuovi ambienti e nuovi dispositivi, non si può non notare la crescente assenza del ‘sacro’ buio: la visione avviene, infatti, sempre più spesso in piena luce e i luoghi in cui viene esperita sono spesso aperti, esposti, senza soglia. Il cinema è ormai solo una parte del flusso continuo di immagini e suoni in cui siamo immersi.
I gesti anche elementari di uno spettatore – pagare il biglietto, entrare in una sala, sedersi al proprio posto, accendere/spegnere un device, attivare l’attenzione, entrare in un possibile mondo, sentirsi parte di un pubblico – sono pratiche percettive, cognitive, operative, relazionali che mettono in gioco il corpo, la mente e i rapporti con gli altri. Allontanarsi dalla vita corrente, liberando la fantasia [2] e sintonizzandosi con immagini che riproducono il reale, permette di vivere, infatti, un’esperienza connessa a un corpo (embodied), ma anche connessa a una cultura (embedded). Al cinema gli spettatori sono ‘nella’ storia, e per questo sentono e agiscono davvero, pensando e amando/odiando con i protagonisti delle vicende in cui sono entrati, sentendo ‘con’ e ‘in’ loro.
L’avvento progressivo della drastica riduzione delle dimensioni dei dispositivi, parallelo a una loro maggiore portabilità, ha annullato la tradizionale immagine di spettatore fermo di fronte a uno schermo, facendo approdare a una concezione post-cinematografica/televisiva di spettatore cui ora è assegnata una mobilità decisamente maggiore: può muovere lo sguardo e anche i device di visione. Ecco che il cinema ha potuto espandersi e raggiungere tutti ovunque. L’obiezione nostalgica che il cinema in sala offra un piacere di visione superiore (la magia del cinema), acuisca attenzione e arousal grazie al contatto più ravvicinato con ciò che viene proiettato è contraddetta dalle nuove opportunità sensoriali con cui lo spettatore può direttamente operare: alla visione si affianca in modo prepotente il tatto, il cinema è ‘a portata di mani’ (tenere in mano il dispositivo crea una particolare intimacy, che potrebbe indurre specifiche stimolazioni). La manipolabilità degli smartphone, per esempio, presuppone un’interazione motoria caratterizzata da digitazioni ripetute, che trasformano ciò che si si guarda in un proprio spazio peripersonale. Inoltre i device sono per loro natura ponti facilitanti interruzioni per eventuali ipertestualizzazioni dell’esperienza, che può essere approfondita con ricerche in rete su regista, attori, trama… Indossare, per esempio, auricolari consente di isolarsi e di concentrarsi in modo più forte. Il film e il suo spettatore sono indiscutibilmente congiunti, sono “vedenti visti”, “toccanti toccati”, poli attivi in un medesimo spazio di relazione intersoggettiva. [3]
L’esperienza del mondo da linguisticamente riflessiva (Erfahrung) diviene sensuosamente incarnata (Erlebnis): al centro della nostra esperienza del mondo riluce una nuova visualità corporea.
L’interesse per la natura ‘incarnata’ (embodied) e sinestetica dell’esperienza audiovisiva ha indubbiamento aperto la via a molte interpretazioni suggestive e innovative: comprendiamo il senso di alcuni comportamenti e/o esperienze altrui in virtù del ‘riuso’ degli stessi circuiti neurali su cui basiamo le nostre stesse esperienze di azione, emozione, sensoriali. Dobbiamo a Vivian Sobchack, esperto dei media americani e critico culturale, l’evidenza del contributo degli elementi percettivi dell’esperienza filmica non solo nel generare specifiche sensazioni, o reazioni emotive, ma anche nel produrre un senso dell’esperienza che integra intelletto ed emozionalità. Sobchack sostiene così che il Cinema sia un medium cinestetico, data la sua comunicazione che combina la percezione in un unicum, esprimendo complessi stati corporei. Visto che lo schermo possiede una propria pelle che incontra quella dello spettatore, il cinema lo ‘tocca’.
Così come il linguista e semiologo francese Roland Barthes aveva intuito una connessione tra testo letterario e corpo del lettore (il lettore è lo spazio in cui si inscrivono, senza che nessuna vada perduta, tutte le citazioni di cui è fatta la scrittura [4]), il teorico del Cinema Raymond Bellour pone la connessione fra corpo-mente-cervello al centro dell’analisi contemporanea dei media, vedendo nel ‘corpo del cinema’ il luogo virtuale – ipnotico – dell’incontro tra il corpo dello spettatore e il corpo del film, entrambi corps d’émotions. Il film si offre come elemento di mediazione tra il suo creatore e il suo spettatore.
La scoperta dei neuroni specchio ci consegna una nuova nozione di intersoggettività fondata empiricamente, e connotata in primis come intercorporeità. La nostra capacità di comprendere gli altri non dipende esclusivamente da competenze mentalistico-linguistiche, ma è fortemente dipendente dalla natura relazionale dell’azione. È possibile comprendere il senso delle azioni di base altrui grazie ad un’equivalenza motoria tra ciò che gli altri fanno e ciò che può fare l’osservatore. L’intercorporeità diviene così la fonte principale di conoscenza che abbiamo degli altri. [5]
Il meccanismo di risonanza motoria dei ‘neuroni specchio’ (scoperto nelle cortecce premotorie e parietali del macaco e in seconda battuta anche nel cervello umano) – neuroni multimodali la cui scarica contribuisce a produrre atti motori, ma che scaricano anche durante l’osservazione dello stesso atto motorio o di un atto motorio simile, eseguito da altri, o al suono prodotto dal medesimo atto motorio [6] – è verosimilmente il correlato neurale di ciò che viene chiamato ‘simulazione incarnata’ (embodied simulation). Le medesime strutture nervose coinvolte nell’esperienza soggettiva di sensazioni ed emozioni si attivano anche quando tali emozioni e sensazioni vengono riconosciute negli altri. L’individuazione dei meccanismi guidati dai mirror neurons, che consentono a un individuo di riprodurre all’interno dei propri circuiti cerebrali azioni ed emozioni osservate, costituisce quindi il punto di partenza per l’elaborazione di questo nuovo modello di percezione, vero fulcro dell’analisi di Gallese e Guerra [7] che pone le basi per una nuova teoria dell’intersoggettività e, conseguentemente, della ricezione del film. Ogni film è essenzialmente fondato sull’azione e sull’interazione dei personaggi che si muovono davanti ai nostri occhi come le persone in cui imbattiamo quotidianamente: quelle ombre sullo schermo compiono gli stessi gesti, provano gli stessi sentimenti e le stesse emozioni, sono mosse da forme di intenzionalità che replicano fedelmente i sistemi di funzionamento del mondo reale. [8]
Ammesso che le dinamiche rappresentate sullo schermo replichino fedelmente i sistemi di funzionamento del mondo reale e che i meccanismi percettivi e neurofisiologici che distinguono il nostro relazionarci con il mondo reale e con quelli finzionali della narrazione cinematografica siano in gran parte simili, si può sostenere che anche l’esperienza della ricezione del film si fondi su questo meccanismo. Gallese e Guerra mettono quindi a fuoco un nuovo modello di spettatore che è corpo & mente insieme e i cui processi cognitivi hanno basi corporee. Poiché accade una sorta di consonanza intenzionale grazie alla quale diventa possibile il riconoscimento implicito degli altri, cognizione e corporeità sono dunque in strettissimo rapporto e il cinema, in quanto espressione artistica della creatività umana, ormai è consapevole che non può prescindere da questa comprovata evidenza e sa anche che lo spettatore sempre più si sta facendo significativamente player (parola di Spielberg!) dentro l’esperienza, e oltrepasserà lo schermo, non più finestra né barriera. Si affacciano pertanto nuovi paradigmi che le Neuroscienze supportano con le loro indagini sempre più eleganti e curiose.
Obiettivo principale del cinematic cognitivism è di capire 'how spectators make sense of and respond to films, together with the textual structures and techniques that give rise to spectatorial activity and response'. [9]
Ormai sappiamo che nello studio dell’esperienza di visione di un modello di spettatore non è possibile disincarnare tale esperienza riducendola a un mero fatto mentale, mettendone in luce i soli effetti cognitivi: il dibattito che ruota attorno al mind-body problem deve sempre tener nel dovuto conto delle emozioni (risultato dell’elaborazione cognitiva di dati e stimoli provenienti dall’interrelazione del soggetto con il mondo esterno), potenti mezzi di comprensione del testo e della partecipazione dello spettatore al testo. La tradizionale dicotomia di cartesiana memoria (passione /ragione, res cogitans/res extensa) è ampiamente superata. [10]
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note
[1] F. Casetti, 'La questione del dispositivo', in «Fata Morgana», quadrimestrale di cinema e visioni, Pellegrini Editore, anno VII, n° 20, 2013, p. 10.
[2] Interessante l’approccio della teoria psicanalitica del cinema, che si appoggia sull’equivalenza spettatore-sognatore, essendo ritenuta l’esperienza filmica simile al lavoro onirico, che produce fantasie dall’inconscio, appagando simbolicamente desideri latenti. Lo spettatore cinematografico è uno spettatore desiderante.
[3] M. Merleau-Ponty, 'Fernomenologia della percezione', in A. D’Aloia, R. Eugeni (a cura di), op. cit, p. 33.
[4] R. Barthes, 'La morte dell’autore', in Il brusio della lingua. Saggi critici IV, Einaudi, Torino
1988, pp. 51-56.

[5] V. Gallese, M. Guerra, 'Film, corpo e cervello: prospettive naturalistiche per la teoria dei film', in «Fata Morgana», quadrimestrale di cinema e visioni, Pellegrini Editore, anno VII, n°20, 2013, p. 90.
[6] I neuroni specchio rispondono all’osservazione di un’azione altrui anche quando la sua parte più significativa è invisibile e può essere solamente immaginata.
[7] V. Gallese, M. Guerra, 'Lo schermo empatico. Cinema e neuroscienze'. Raffaello Cortina, Milano 2015.
[8] IVI, p. 79.
[9] C. Plantinga, 'Cognitive Film Theory. An Insider’s Appraisal,' «Cinémas», numero monografico Cinéma et cognition, 2, 2002, p. 23.
[10]  Fondamentali i contributi scientifici di vari autori, tra cui Antonio Damasio, Daniel Goleman (sull’Intelligenza Emotiva), Stanley Schachter, etc.
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