Superata l’idea tradizionale che le organizzazioni siano delle realtà preesistenti e indipendenti dalle persone che le animano, oggi le si considerano come un formicolare di persone, che occupano ruoli più o meno ufficiali e che lavorano secondo routine generalmente abbastanza prevedibili, lasciando tuttavia spazio a improvvisazioni, nuove conoscenze e adattamenti richiesti dalle varie contingenze ed emergenze.
In ogni organizzazione accanto agli aspetti materiali, ne esistono di immateriali ed impalpabili e proprio per questo non è sufficiente una visione puramente strumentale o un approccio oggettivistico al loro studio. Gareth Morgan, ricercatore della York University di Toronto e consulente per numerose organizzazioni in Europa e America, nel suo fortunato libro Images (1977) compie un’analisi per metafore, ipotizzando che tutte le teorie organizzative e manageriali siano fondate su concezioni o metafore – appunto – implicite, che conducono alla percezione delle organizzazioni in modo se pure caratteristico, parziale, e conseguentemente fonte di possibili distorsioni. Dunque, pur nell’importanza del percorso tracciato da Morgan [1], occorre rammentare che nessuna teoria è in grado di offrire una descrizione esaustiva e completa della realtà, per cui la vera sfida consiste nel diventare abili nell’arte di usare le varie metafore per comprendere le situazioni e gli scenari che ci si propone di ‘leggere’. Nella prefazione all’edizione italiana del volume, Massimo Balducci sottolinea che il lavoro di Morgan si inserisce nella fase interparadigmatica – secondo la nota definizione di Kuhn – in cui la conoscenza si organizza attorno a problemi, a oggetti di studio che vengono affrontati avvalendosi di più approcci: la multidisciplinarietà si impone, tanto che le discipline di riferimento sono sia di tipo prescrittivo (economia, logica), che di tipo descrittivo (psicologia, sociologia, antropologia).
Trovo di particolare interesse tra le metafore di Morgan, quelle che guardano all’organizzazione come organismo e come prigione psichica.
Organizzazioni come organismi
Assai diffusa, questa metafora suggerisce che le organizzazioni nascano, crescano, si sviluppino, decadano e muoiano proprio come le specie viventi e, come queste, riescano ad adattarsi a circostanze sempre mutevoli. Valutando le organizzazioni come sistemi aperti (open system theory), non immuni dalle sollecitazioni da parte dell’ambiente (task o business environment) e pertanto costrette ad adeguarvisi, va sempre tenuto presente che queste sono prima di tutto composte da esseri umani e dunque risultano soggette a necessità e portatrici di bisogni da soddisfare. Se già con i celebri esperimenti condotti da Elton Mayo, presso la Hawthorne Works della Western Electric a Chicago (1925-27) si arrivò a comprendere che ‘quando si ha a che fare con gli esseri umani è impossibile cambiare una condizione senza cambiarne con ciò inavvertitamente anche qualche altra’ [2] e dunque si misero in luce le problematiche inerenti la motivazione al lavoro (una vera e propria rivoluzione copernicana), fu Abram H. Maslow ad approfondire i tentativi di comprensione delle motivazioni alla base del comportamento delle persone a partire dalla definizione dei loro bisogni da soddisfare. Secondo Maslow non vi è una vera e propria gerarchia di bisogni [3], ma questi vengono ‘sentiti’ come esigenze da soddisfare in vario ordine: va da sé che se all’interno di un’organizzazione verranno soddisfatti i bisogni più basilari degli individui molto probabilmente si raggiungeranno più facilmente gli obiettivi prefissati: appagando il bisogno di autorealizzazione (achievement: voglio e posso essere chi vorrei essere) l’individuo si sentirà maggiormente motivato e si stimolerà in lui un più radicato attaccamento al lavoro. Dunque non basta garantire un posto di lavoro o un compenso monetario: riprogettare le mansioni e le relazioni interpersonali all’interno di un ambiente lavorativo diviene fondamentale (Argyris, Herzberg, McGregor). L’idea dell’arricchimento della mansione, insieme a quella di uno stile di leadership più partecipativo, ha fornito spunti all’approccio, nei termini della teoria psicoanalitica, del Tavistock Institute of Human Relations di Londra (anni Sessanta del secolo scorso): le osservazioni sistematiche del comportamento umano condotte dai vari ricercatori, ruotavano attorno alla questione principale determinata dalla necessità di mutamenti di fronte ai quali gli individui rispondono prevalentemente con incertezze e resistenze psicologiche.
Dunque al pari dei sistemi viventi che hanno un loro ciclo biologico, le organizzazioni sono caratterizzate da un loop di input (risorse: umane, finanziarie, informative, materiali), trasformazione interna (divisione dei ruoli e delle mansioni, flusso di informazioni), output (produzione di beni e servizi) e feedback (successo economico e in termini di prestigio) all’interno di un ambiente (stakeholders e contesto). Lo sviluppo e il successo dell’organizzazione sono vincolati alla capacità di riconoscere i cambiamenti richiesti e di realizzarli.
Organizzazioni come prigioni psichiche
Morgan in questa metafora pone l’attenzione sul fatto che spesso le persone che lavorano in un’organizzazione restano intrappolate nei loro pensieri e nelle loro convinzioni. Su questo vanno ad innestarsi i condizionamenti consci e inconsci, cui tutti, in misura minore o maggiore, siamo sottoposti. Platone, con il suo sempre attuale ‘mito della caverna’ (Repubblica), offre lo spunto a Morgan per aprire il capitolo in questione [4]. Molto di quanto avviene a livello superficiale è condizionato dalle strutture e dalle dinamiche profonde della psiche umana. Da Sigmund Freud l’idea che gli uomini siano prigionieri e prodotti al contempo della loro storia psichica personale e collettiva e che le organizzazioni siano non solo il risultato delle influenze esercitate su di esse dal loro ambiente, ma anche dall’impatto che su di esse hanno gli atteggiamenti inconsci dei loro membri. E se le organizzazioni fossero il risultato di una sessualità repressa oppure della paura della morte, come sospetta Becker? Le organizzazioni infatti, trascendono la vita dei loro singoli membri e anzi sopravvivono per svariate generazioni: oggettivandosi nei beni prodotti o nel denaro guadagnato, le persone che vi lavorano si rendono visibili e reali a se stesse; miti, riti, senso di appartenenza (si pensi al modello giapponese) o identificazione nella professione svolta (privilegio oggi sempre più raro) dunque servirebbero a difendersi dalla consapevolezza della propria vulnerabilità.
Da Melanie Klein (comprese l’impatto che hanno i meccanismi di difesa nei confronti dell’ansia elaborati nei bambini sulla personalità adulta) l’idea che sia possibile spiegare le strutture, i processi, la cultura organizzativa in termini di meccanismi inconsci di difesa sviluppati dai lavoratori per affrontare l’ansia individuale e collettiva. Da Wilfred Bion (Tavistock Institute, Londra) i concetti sulla reattività dei gruppi nelle situazioni ansiogene, quando si manifesta una sorta di regressione a modelli di comportamento infantili per proteggersi nei confronti degli aspetti spiacevoli del mondo reale. Da Donald Winnicott (sua è la concettualizzazione dell’oggetto transizionale, fondamentale per chiarire le distinzioni tra ‘me’ e ‘non me’, creando zone di illusione che aiutano il bambino a sviluppare i suoi rapporti col mondo esterno) Harold Bridger trae spunto per ritenere che molti accadimenti organizzativi possano esser considerati veri e propri fenomeni di transizione, da cui i varî atteggiamenti in grado di bloccare creatività, innovazione, cambiamento…
Da Carl Jung ancora le riflessioni sull’ombra (la parte sommersa dell’ego conscio, cioè i desideri e i moti non desiderati e inconfessati) che, quando repressa, nell’organizzazione, diventa una sorta di riserva di energie indesiderate e represse, ma anche perse e sottovalutate. Nell’ombra dell’organizzazione pertanto si ritrovano tutti gli opposti repressi della razionalità, che lottano per emergere in superficie e sfidare la natura razionale della prassi [5].
Morgan insomma con questa metafora della prigione psichica spinge a scavare oltre la superficie dell’apparenza e sottolinea la dimensione etica del fenomeno organizzativo, di cui sempre va tenuta sempre in primo piano la dimensione umana.

Protagonisti, comparse e spettatori
Se sono gli individui a fare l’organizzazione, si potrebbe dire con Seth Allcorn, psicologo del lavoro, che vi sono individui che si rappresentano su una scena organizzata. Primeggiare, eccellere, sottomettere, coordinare, collaborare, ‘giocare di squadra’, assecondare, subire, etc. diventano verbi fondamentali nell’analisi della vita quotidiana delle organizzazioni.
Dagli anni ’70 del secolo scorso a oggi il concetto di ‘competenza’ si è evoluto e oramai è assodata l’irrinunciabilità di una sua dimensione di trasversalità. Guy Le Boterf tra gli studiosi che forse si sono spinti più in avanti su questa riflessione, propone il nuovo paradigma della ‘navigazione professionale’: al ‘saper fare’ si è sostituito il ‘saper agire’ dentro a una concatenazione logica. La competenza – secondo lui – è un sapere combinatorio, in cui entrano conoscenze tecniche, teoriche, metodologiche e procedurali, abilità operative, ma anche reti e sensibilità relazionali che permettono di attingere a risorse esterne. La competenza non risiede nelle risorse da mobilitare, né è data dalla loro ‘somma’, ma dall’atto stesso di mobilitazione/combinazione delle risorse, che permette di realizzare una performance [6]. Ovviamente a questo si deve aggiungere il concetto di ‘saper essere’ [7], insieme di meta-qualità, di competenze trasversali (soft skills comprese) che contribuiscono a rendere gli individui efficaci dal punto di vista relazionale, comunicativo e metodologico.
Ecco che la competenza è la capacità di un individuo di combinare in modo appropriato e sempre creativo, originale, le risorse di cui dispone. La relazione cruciale è quella che si stabilisce tra attività e combinazione delle risorse che il lavoratore mobilita adeguatamente per realizzare l’attività specifica. L’agire professionale [8] distingue l’individuo competente, che nel corso della sua ‘navigazione’ è chiamato costantemente a fare il punto della rotta, a orientarsi, a conoscere gli approdi raggiungibili e raggiunti, perché sa agire, vuole agire e può agire.
In questa visione, anche la pianificazione della formazione lungo tutto l’arco di vita e la praticabilità del tragitto – in base alle risorse di cui si dispone e agli assetti del sistema dato – deve tener conto dello specchio di mare in cui avviene la navigazione, delle boe da doppiare, delle condizioni meteorologiche, delle condizioni del mare da solcare, della strumentazione disponibile, nonché delle caratteristiche degli altri naviganti e delle loro imbarcazioni, etc.
Fuori di metafora: entro l’organizzazione si muovono e interagiscono Protagonisti e Comparse, i Primi della classe e i Gregari, i Mediocri e gli Indifferenti, i ‘Salvati’ e i ‘Sommersi’ come avrebbe detto Primo Levi. Tutti devono però vivere – o sopravvivere – e innumerevoli sono le declinazioni possibili per farlo.
È innegabile che l’eccellenza di certe organizzazioni nasca dalle competenze e dalle potenzialità dei singoli attori e non è detto che siano di quelli che occupano le posizioni più elevate nell’organigramma (penso al carisma che si può ritrovare ai livelli intermedi, come intende il sociologo israeliano Etzioni). Efficienza, creatività, qualità relazionali spiccate ed elevato grado di ambizione, solitamente accomunano i superstar, coloro cioè che, in una sintesi virtuosa tra il dovere e il piacere, si distinguono per doti personali speciali, invidiabili e certo non comuni, quali per esempio la capacità di saper anticipare e prevedere il probabile corso degli eventi con notevole realismo, l’esercitare l’autorità senza cadere nel dispotismo (il loro primato è quello del ‘sapere’ non del ‘potere’), un’elevatissima produttività (lavorano e pensano rapidamente ed efficacemente, possedendo una notevole quantità di energia da investire nel lavoro), oppure l’essere stimolo e fonte di apprendimento e confronto, o ancora guide e consulenti affidabili e disponibili al dialogo. La socialità è un altro tratto caratteristico del loro profilo, tanto che non incontrano difficoltà nell’ottenere consensi nelle decisioni prese. Fantasia e intuizione completano il quadro e li portano a essere fermamente convinti che innovazione e migliorie siano sempre opportunità da cogliere. Va tuttavia detto che davanti a soggetti così ipermotivati e straordinariamente efficienti alcune organizzazioni si sentono non solo sedotte, ma anche intimorite e pertanto le reazioni suscitate dai superstar possono coprire un range assai dilatabile, che spazia dal timore all’invidia, passando per la dipendenza e un possibile sentimento di rabbia. La tensione all’egualitarismo e alla conformità e spesso una sorta di anti-elitarismo (con conseguente rivalutazione della normalità delle competenze ‘mediocri’) purtroppo esistono.
Molto intrigante, quanto velato di amara ironia, il contributo di Allcorn sulla ‘superiorità nevrotica’, con il ricorso alle metafore astronomiche per descrivere i profili delle eccellenze ‘disturbate’ [9]: i superstar infatti condividono la luminosità e l’energia smisurate delle stelle, ma anche la loro inevitabile solitudine.
Sul versante opposto stanno invece i codipendenti, che hanno innata quasi una vocazione a mettersi in secondo piano, da cui la loro fragilità, che tuttavia può essere anche una forza, perché in fondo stanno pur sempre a strettissimo contatto con gli altri che recitano la parte da protagonista, che emergono e di cui fanno da ‘braccio destro’, ‘alter ego’, ‘fido sostituto’, ‘spalla’. In questa loro predisposizione alla devozione, alla fedeltà e alla leale subordinazione, trovano adeguatamente compensato il loro bisogno di attaccamento [10] e dipendenza indiscussa. Se pure queste personalità potranno essere apprezzate, sicuramente non saranno invece riconosciute; stimate insomma, ma non ammirate, come invece i superstar. Allcorn insiste sulla natura originaria della codipendenza come modalità di relazione ‘appresa’ nell’ambito dei legami parentali e concordo con lui nel ritenere che le domande – rimaste senza adeguata risposta – di attenzioni e affetto vengano in qualche modo riproposte in età matura: da qui l’anelito a com-piacere e a farsi ben-volere [11]. Ma esistono anche i falsi superstar, che, pur inseguendo ansiosamente una superiorità che consenta loro di sottrarsi ai controlli e nel contempo però di attuarli, in realtà vivono dominati da un malcelato bisogno di dipendenza. Forse, nel vissuto di questi profili, non sarà raro ritrovare figure parentali troppo amorevoli, soffocanti, non punitive, ma piuttosto capaci di far sentire sempre colpevole ogni azione votata all’indipendenza: da questo stato prostrante di impotenza, la forte ostilità per ogni manifestazione di controllo e autorità. Facilmente, appellandosi al senso di responsabilità e del dovere, i falsi superstar tenteranno di esercitare in modo sotterraneo un controllo sulle vite altrui. Ma, oltre al timore di essere controllati e di essere manipolati, esiste una terza paura: quella di essere strumentalizzati ed è propria della tipologia dei codipendenti indifferenti. Costoro, che né cedono né eccedono, rinunciando a mire di carriera o di ricoprire ruoli di potere, cercano nell’isolamento un modo di partecipare alla rappresentazione senza esserne implicati: fungono da spettatori, insomma. Questo voler esorcizzare lo spettro della solitudine, l’insicurezza e l’ansia quindi portano a una sorta di ‘ritiro’, di invisibilità - se pure non mancheranno episodi per testimoniare che sanno lavorare bene soprattutto se da soli. Gli eventi che plausibilmente originarono queste personalità fanno ipotizzare un contesto familiare bisognoso d’affetto, con figure parentali evasive e abdicanti, rinunciatarie e distratte.
Alla luce di quanto esposto, i codipendenti non sono affatto dipendenti ‘ideali’, ma fonti di contraddizioni e conflitti, confusione e mimetismi. L’auspicio è che quello dello ‘spettatore’ e del ‘regista’ siano ruoli – e soluzioni difensive – proprio da evitare, nella vita organizzativa. Assume dunque grande forza la convinzione che ‘sia imprescindibile non solo tener conto, ma piuttosto esser pienamente consapevoli di queste dinamiche, anziché, come più spesso avviene, tentare di rimuoverle attraverso la negazione di una qualunque possibilità (razionale, ovviamente) che la dimensione dell’inconscio abbia qualcosa a che fare con l’organizzazione [12].
Apprendere dall’inconscio è una sfida cui non ci si può sottrarre.

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note
[1] Tratta delle organizzazioni come macchine, come organismi, come cervelli, come sistemi culturali, come sistemi di governo, come prigione psichica, come flusso in continua evoluzione o come strumenti di potere.
[2] E. Mayo, in Peirone e Canepa, Valutare attitudini e competenze, Le Mani Università, Genova, 2005.
[3] Basic physiological needs; safety and security needs; belonging, social activity; esteem, status; selfrealization, fulfilment.
[4] Socrate analizza i rapporti tra apparenza, realtà e conoscenza e ci pone di fronte al fatto che le nostre proprie prospettive pongono gli schemi a noi più familiari in una luce chiara, che ci fa apparire pertanto assai difficile cambiare.
[5] Le caratteristiche ‘arazionali’ non sono affatto disposte a lasciarsi estromettere pacificamente, il che consente di interpretare molte patologie e sindromi da alienazione riscontrabili nelle organizzazioni come la manifestazione della totalità necessaria della psiche.
[6] Peirone, Canepa, 2005.
[7] Sapere, riguarda le conoscenze; Saper Fare, riguarda le capacità, le abilità e l’esperienza; Saper Essere, riguarda i comportamenti e gli atteggiamenti, e ha a che fare con l’identità.
[8] Si costruisce all’incrocio tra biografia e socializzazione del soggetto, contesti organizzativi-operativi e formazione professionale.
[9] Il paranoide presuntuoso in cerca di rivincite è assimilato alla pulsar, il cui battito intermittente è segno della sua stessa implosione; il perfezionista ossessivo è assimilato a una supernova, uno tra i fenomeni stellari più luminosi; simile a un buco nero, regione dello spazio dotata di un’energia così potente da curvarla, impedendo alla materia e alla luce di uscirne, chi ha un orientamento alla superiorità nascosto e orientato al ritiro, a una gigante rossa - circondata da un involucro di gas che ne moltiplica le dimensioni - invece lo ha ostentato ed esibito; come una nana bianca, avviata allo stato finale della propria esistenza, chi, con stile depressivo, ha come suo tema dominante l’accettazione della dipendenza.
[10] In Freud visto come scelta anaclitica, in Balint come relazione ocnofilica.
[11] Il codipendente, sia esso un manager o un semplice impiegato, lavorerà con grande impegno per far sentire gli altri accuditi e cercherà di creare un ambiente di lavoro che, al contrario del proprio nucleo familiare, sia autenticamente supportivo (Allcorn, 1992).
[12] G. P.  Quaglino. 2004.
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