Il potere è un’invenzione dell’uomo, non esiste in natura. Essenzialmente consta di un’interazione (dunque non sempre coercitiva o dispotica) in cui un attore agisce con la pretesa (in lingua inglese to pretend significa ‘fingere’) che un altro attore si conformi ai suoi voleri e intendimenti. È proprio in base a questa ‘pretesa’ che i tre tipi ideali di potere descritti da Weber [1] si distinguono; la pretesa non è all’obbedienza, ma alla conformità: ovviamente può riuscire o meno, a seconda che ci sia o no un conformarsi conseguente a una capacità di persuadere, di convincere. Per esistere il potere (in tedesco herreschaft significa ‘potere’, nel senso di ‘signoria’) infatti deve essere riconosciuto, legittimato; esso è inoltre sottomesso alla potenza (Macht), intesa come capacità di qualunque essere di espandersi [2]. ‘Il potere è un grande narcotico: dà vita, nutre, ci rende schiavi. Chi lo possiede ha in genere lavorato duramente per ottenerlo e non ha nessuna voglia di rinunciarvi. È questa assuefazione a far sorgere in individui e organizzazioni tutta una serie di problemi relativi al potere’ – ammonisce Manfred Kets de Vries, [3] Clinical Professor of Leadership Development all’INSEAD Global Leadership Centre di Fontainebleau, esperto a livello internazionale di psicoanalisi delle organizzazioni e di management.
La leadership si identifica con l’esercizio del potere e ne consegue che il suo essere buona, inadeguata o controproducente dipende proprio dalla capacità di un individuo di amministrarlo. Ma prima di approfondire questo campo, occorre definire più precisamente la leadership [4], su cui esiste una letteratura copiosissima: questa dovrebbe essere guardata soprattutto come una ‘relazione’, un luogo di scambio e crescita, collaborazione e realizzazione, come nodo cruciale in cui, come giustamente sostiene Obholzer, confluiscono però anche le difficoltà nella gestione del potere, le ambivalenze, le invidie. Berg aggiunge che lo sviluppo della leadership ha rimpiazzato di fatto il management, la partecipazione, la pianificazione strategica e il cambiamento organizzativo: è il leader che fornisce la ‘visione’ e il rischio vero è che questa rifletta solo i suoi bisogni. Sarebbe infatti irreale negare il lato oscuro della leadership, che invece così spesso emerge dai racconti della followership. Il tema è scottante e provoca domande: perché mai è così difficile rinunciare al potere? Perché è del resto così difficile essere un buon leader? Perché è invece così semplice perdere il senso del limite una volta raggiunta quell’ambita posizione? Modelli e ricettari certo non possono fornire le risposte.
Il leader è per il follower colui che soddisfa i bisogni primari di sicurezza e dipendenza (Miller, 1998): accade che nell’immaginario dei secondi il leader, socialmente irraggiungibile, venga ‘mitizzato’ e dunque investito di ulteriore potere. È proprio questa distanza che contribuisce all’incanto. Una leadership efficace implica un’attenzione al compito e una considerazione per i membri del gruppo: il leader ‘è colui che influenza gli altri membri del gruppo più di quanto non ne venga influenzato […] non è qualitativamente diverso dagli altri membri del gruppo, è solo un membro del gruppo a cui viene riconosciuta e attribuita la capacità di esprimere e trasformare in scelte operative ciò che il gruppo deve o intende raggiungere’.[5]
La leadership ha dunque la funzione di bilanciamento tra membership [6] e groupship [7], garantendo e presidiando la soddisfazione dei bisogni individuali e di gruppo.
Ovviamente a ogni orientamento intrapsichico al potere corrispondono specifici stili di potere/leadership, che Kets de Vries individua in quello ‘persuasivo’, ‘coercitivo’ e ‘manipolatore’. Tre sono gli aspetti del potere interpersonale, ognuno dei quali origina da una delle prime fasi del ciclo vita (Freud): 
- potere oceanico (la ‘fissazione’ al sentimento di unità proprio della fase orale condurrà a una leadership carismatico/persuasiva, in cui avrà il primato la parola), 
- potere controllante (una sorta di rielaborazione della fase anale, in cui si realizza l’apprendimento del controllo e del dominio; espressione di questa fase sarà una leadership coercitiva con un primato del comando) e 
- potere di rivalità (ancorato alla fase edipica, riprodurrà una leadership manipolativa con tutte le ambivalenze tra cooperazione e competizione. Qui il primato sarà del conflitto). 
Insomma: le persone che arrivano, con sacrificio e volontà, pagando spesso costi altissimi in solitudine e isolamento, alla posizione di leader starebbero cercando di risolvere problemi personali e conflitti di contenuto eminentemente relazionale, proiettandoli all’esterno: le parti disturbanti interiori debordano, nell’ostinata ricerca di un Sé grandioso e magnifico.
Kets de Vries parla anche del ‘fattore di fallimento della leadership’ e lo identifica in quella che chiama la dimensione-F: essendo legata ai processi di proiezione e identificazione in gioco nella relazione leader-collaboratore, la visione, che spesso coincide al sogno (anzi al ‘bi-sogno’ appartenendo a entrambi) può trasformarsi in illusione, auto-inganno, fuga dalla realtà. Ecco che le qualità mitiche e carismatiche attribuite al leader decadono, poiché non corrispondono più a quelle effettivamente possedute. Non sono quindi da escludere le vendette, per i sogni traditi. Il transfert idealizzante e rispecchiante non affascina più: ostilità, masochismo morale e invidia possono diventare le risposte comportamentali più probabili.

Lusinghe, illusioni, patti, contratti e ricatti 
Nelle organizzazioni coesistono tutte le irrazionalità, gli stati emotivi, le incoerenze, i rituali, i simboli che caratterizzano gli individui. Purtroppo l’equazione ‘profondo/ irrazionale = non funzionale’ è assai diffusa e si dimentica che senza doti creative, tipiche di chi ha dentro di sé un diaframma permeabile tra conscio e inconscio, le conquiste della civiltà – tecnico-scientifiche o umanistico-artistiche – non avrebbero potuto esistere; la determinazione a una razionalità finalizzata a sostenere le sfide dello sviluppo nelle organizzazioni propende per la rinuncia a molti dei tratti invece più salienti dell’Uomo: diventa così, spesso, inevitabile che l’elemento individuale venga posto in secondo ordine rispetto a quello collettivo. Rigidità, mediocrità e conformità diventano le parole chiave delle organizzazioni, quando credono di poter difendere invece quell’immagine di grande dinamismo che tanto propagandano.
Robert Denhardt raccoglie il monito che Jung indirizza alle organizzazioni che insidiano la soggettività promuovendo l’anonimato e approfondisce ragioni e non-ragioni del disagio dell’organizzazione. La vita organizzativa infatti ha le sue lusinghe e i suoi ricatti, proprio perché il progetto del singolo e quello della collettività facilmente contrastano tra loro, come pure le azioni e i significati che il processo di socializzazione ‘dentro’ l’organizzazione impone. Oltre la fatica di destreggiarsi, rimangono solo due alternative: resistere o arrendersi, non senza costi in termini di depressioni, nevrosi, stress, mobbing, bossing, sindromi da burn-out… Perdersi in quei labirinti così disorientanti che si imboccano quando ci si sforza di orientare i propri obiettivi su quelli che invece non ci appartengono – e mai ci apparterranno – diventa una de-soggettivizzazione che imprigiona. Jung, come è noto, designa, quali mediatori del rapporto col mondo esterno e il mondo interno, la personalità esteriore che chiama Persona [8] e la personalità interiore che designa Animus/Anima [9]: solo un rapporto di equilibrio Io-Persona e Io-Animus/Anima consente di procedere verso la realizzazione del Sé. Ma nella visione junghiana esiste anche l’Ombra, il lato ‘negativo’ della personalità che si oppone all’Io, a ciò che è conscio (tutto ciò che il soggetto non riconosce e che, instancabilmente lo perseguita [10]). Ecco che andare verso se stessi significa correre il rischio di incontrarsi, di non trovare un’immagine di sé lusinghiera, ma anche di dialogare e confrontarsi con la parte che non si è soliti mostrare né cogliere, perché magari strenuamente perseguita la Persona o rappresenta il rimosso, le alternative di vita cui si è detto di no, le ‘altre’ storie che si sarebbero potute scegliere, raccontare, le decisioni scartate, le occasioni non raccolte per mancanza di coraggio: individuarsi diventa un percorso faticoso, irto di compromessi, patti disattesi, illusioni, ricatti e raggiri disseminati come trappole dalla società o dall’organizzazione in cui si vive.
Nell’era della solo presunta razionalità olimpica, dunque, incontrare l’Ombra (acconsentire a gettare la maschera) non può che suscitare enormi resistenze, ma sopportarne la conoscenza significa almeno già aver permesso all’inconscio di affiorare, non negandolo. Per questi motivi diventa dannoso anche per le organizzazioni rinunciare/rifiutare/reprimere le funzioni delle intuizioni e dei sentimenti sacrificandole al ‘razionale’: decisioni senza emozioni e relazioni senza sentimenti non hanno completezza né efficacia. L’Ombra organizzativa compare nei capri espiatori (gli ‘esclusi’, inadeguati, diversi, sbagliati, singoli o a gruppi, vera personificazione, come ben rileva Denhardt, del problema inconscio dell’organizzazione) e nelle molteplici configurazioni del potere, che pervade, invade, si insinua per conquistare, spartire, occupare, mantenere, difendere posizioni, privilegi, ruoli. E le ‘doppie vite’, i ‘secondi fini’, le ‘ragioni nascoste’, i ‘leader senz’Ombra’ con i loro collaboratori che diventano capri espiatori… mostrano le frustrazioni, le insoddisfazioni, le sofferenze di un mondo scompensato, che Martin L. Bowles, anch’egli all’interno di una cornice di riferimento junghiana, attribuisce anche a una pericolosa polarizzazione del principio maschile del Logos, assertivo, razionale, analitico, ‘oggettivo’ e conscio, a discapito di quello femminile, emozionale, ricettivo, sintetico, soggettivo e inconscio, l’Eros [11]. Per comprendere allora le nevrosi organizzative occorre de-personificare le organizzazioni, togliendo loro quelle maschere che permetteranno di arrivare agli strati ctonî del loro inconscio collettivo, in cui stanno confinati i contenuti a più alta valenza mitica, penetrando insomma nel mondo degli archetipi.

Carattere adattivo delle emergenze emotive
Un ultima nota sugli aspetti generali che rimandano alla dimensione delle relazioni interpersonali – quindi emozioni e sentimenti – che si estrinsecano nella vita organizzativa, che possono rappresentare comunque ‘anche’ opportunità adattive, come ritiene Allcorn. La delicatezza dell’equilibrio della soglia di tali risposte adattive da intime a esteriorizzate tra i componenti dell’organizzazione però è immensa, perché i risultati possono diventare facilmente limitanti e distruttivi. Conflitti e ambivalenze (tra gli stressors più potenti vanno certamente annoverati l’ambiguità e i conflitti di ruolo) sollecitati dalla dimensione dell’ansia da confronto con chi i superstar, possono estrinsecare dinamiche invidiose, gelosie imbarazzanti, conferme dolorose della propria inadeguatezza, inaccettabili sensi di inferiorità, irrigidimenti di opinioni o forzature nelle prese di posizione: la paura può rivelarsi paralizzante, nuove idee possono andar perse, il non-agire esser ritenuto rassicurante. La rabbia e l’aggressione possono allora essere l’esito ultimo, la manifestazione finale, ma anche la motivazione a ristabilire il cosiddetto ordine delle cose, l’autostima, la fonte per un cambiamento, il propellente per riaffermare se stessi, per dar nuova voce alle proprie istanze[12]. Nel clima di profondo mutamento in cui viviamo oggi, sapersi rinnovare, investire energie per cambiare, senza considerarlo come qualcosa di negativo, fortifica i legami all’interno delle strutture organizzative e rafforza la psiche degli individui.
Cambiare va dunque interpretato come un processo di autorealizzazione – sia per un individuo che per un’organizzazione – e in questa ottica i conflitti organizzativi (essendo processi relazionali, dinamici, vanno letti come indicatori dell’insoddisfazione presente all’interno di una relazione), non sono pertanto più solo una dolorosa esperienza, ma anche un momento di grande apprendimento, a patto che si scelga di voler essere attivi più che reattivi e si voglia davvero ottenere questo learning come risposta.
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note
[1] Carismatico-profetico, tradizionale-dell’eterno ieri e legale o razionale-burocratico.
[2] Penso ad Aristotele, ma anche a Nietzsche, in cui la volontà di potenza è la volontà che vuole se stessa, come perpetua trascendenza e pulsione infinita di rinnovamento dei propri valori.
[3] M.F.R. Kets De Vries, ‘Leader, giullari e impostori’, Raffaello Cortina, Milano, 1994; ‘L’organizzazione irrazionale’, Raffaello Cortina, Milano, 2001
[4] Leader, secondo l’Oxford English Dictionary, è un vocabolo che compare nel XIII sec., mentre leadership nella prima metà del XIX sec., per indicare l’influenza politica e il controllo del Parlamento inglese. Dall’inglese to lead: condurre, guidare, dirigere; nell’antico germanico, da cui il verbo deriva, il significato principale era ‘andare’. Dunque etimologicamente to lead è ‘andare per primo’. In cinese leadership è ling dao, dove ling sta per ‘collo’ (la parte più alta, corrispondente all’italiano ‘capo’, ‘testa’. L’ideogramma contiene il carattere che indica ‘ordine’, ‘comando’) e dao indica qualcosa come ‘strada’, ‘via’, ‘metodo’, ‘principio’. Ecco che anche in cinese il significato è ‘fornire la guida per andare avanti’, ‘indicare la direzione’.
[5] Peirone, 2005.
[6]  ‘Essere membro’, cioè identificare mentalmente il gruppo come opportunità per la soddisfazione dei bisogni.
[7] ‘Essere gruppo’, provare un senso di appartenenza nei confronti di un nuovo soggetto - il gruppo appunto - con bisogni originali, diversi da quelli dei singoli.
[8] Un complesso ed intricato sistema di relazioni tra la coscienza individuale e la società, una sorta di maschera pirandelliana insomma, attraverso cui l’individuo si propone al mondo convenientemente così come il mondo si aspetta che lui sia.
[9] Animus: la componente maschile inconscia della donna, ma anche il Logos, la razionalità; Anima: la componente femminile inconscia nell’uomo e il principio dell’Eros; entrambi gli archetipi costituiscono il lato compensatorio della Persona.
[10] C. Jung, 1939.
[11] La negazione forzata dell’Eros espone a due rischi cruciali: da un lato esaspera quei tratti di irritabilità, irascibilità, ostilità e aggressività, che sostengono l’immagine di un mondo altamente competitivo e conflittuale, di un mondo in cui l’azione è lotta e in cui è dunque vitale concentrare ogni energia verso gli imperativi rappresentati dalla conquista di nuovi territori (che si traduce nella fantasia grandiosa della penetrazione dei mercati, ad esempio) e dal mantenimento di una sola unità di intenti (che si traduce nella fantasia altrettanto grandiosa dell’imposizione del consenso, della coesione, dell’integrazione tra gli individui e nei comportamenti); dall’altro sbarra la strada a ogni possibilità di ascolto e riconoscimento della dimensione più profonda della vita organizzativa, del suo inconscio (G.P. Quaglino, 2004, op. cit., pag. 231).
[12]  Secondo il principio del Change Management sono le persone che cambiano e non le organizzazioni
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