L’uomo peregrinante verso una terra sospirata, che, da Ulisse ad Enea, da Abramo a Mosè, è come il simbolo della civiltà occidentale, diventa con Dante [2] l’Homo viator della tradizione cristiana, per cui la casa del ritorno è il cielo, cioè Dio stesso. In questo commento di Anna Maria Chiavacci Leonardi, critica dantesca, troviamo la dizione Homo viator per intendere ovviamente non solo Dante, ma chiunque intraprenda questo viaggio verso Dio, mentre è ancora in questa vita, dove, che lo si voglia o no, tutti gli uomini sono viandanti. Tale pellegrinaggio sarà un cammino fisico e un viaggio della mente e del cuore, comportando una trasformazione dell’esperienza del reale (Erlebnis) in esperienza del conoscere (Erfahrung).
A questo punto del mio lavoro ritengo opportuno approfondire ulteriormente le differenze semantiche che intercorrono tra i concetti di Homo viator e Peregrinus, spesso invece usati come sinonimi. Nella tarda antichità l’accezione di l’Homo viator si riferiva in realtà al messaggero (o cursore) pubblico, incaricato di compiere un determinato percorso per consegnare ordini o missive; egli percorreva insomma la via (come segmento percorribile fra due punti), un cammino ben tracciato e individuabile nel territorio. Alcuni secoli più tardi, quando, con la Patristica, Cristo diventerà ‘la via’, il punto di riferimento per il viandante, l’Homo viator si identificherà con chi consapevolmente sceglierà di compiere un cammino seguendo appunto le tracce di Cristo. Dunque nel termine, coesistono due dati: umiltà della sequela di Cristo e sicurezza della fede. Anche nell’universo del Sufismo esiste questo concetto: l’idea del cammino (sulûk), delle sue tappe (manâzil, maqâmât), dei suoi stati interiori (ahwâl), ha occupato grande parte delle riflessioni dei maestri. È qui che si è innestata l’idea della ‘via mistica’ (tarîqa), che si è poi organizzata anche esteriormente a tale scopo [3].
Peregrinus invece è un vocabolo risalente all’età classica, affermatosi a partire dall’alto Medioevo, derivato, come già ho avuto modo di evidenziare, dalla locuzione per agros, per indicare colui che percorre il territorio esterno alla città [4]. Straniero, dunque, sconosciuto e probabilmente anche ‘strano’, diverso, proveniente da lontano per andare altrove, bisognoso di protezione giuridica, ospitalità e cibo. Essere pellegrino ha assunto col tempo il significato universale di dirigersi verso un luogo particolarmente importante per la propria vita, mosso da un’intenzione religiosa.
Pensare alle molteplici narrazioni del flusso esistenziale del pellegrinare nel confine di un’umanità non rassegnata al suo limite, ha fatto affermare a Gabriel Marcel [5], che 'Etre, c’est être en route' (‘essere, significa essere per la strada’), il che è la condizione stabile (e non contingente) dell’uomo sulla terra. Da qui Marcel ha fatto scaturire molte delle sue riflessioni sull’ontologia della strada, che segna nel più profondo dell’essere il viandante dell’Assoluto e che genera e rinnova ogni giorno l’atteggiamento e la virtù della speranza. La strada è infatti propriamente il luogo della speranza, così come il viandante è l’uomo della speranza. Solo a queste condizioni infatti Marcel ritiene che per l’uomo sia possibile cercare di arginare la disperazione – l’esito inesorabile di una vita che privilegia l’orizzonte dell’avere anziché dell’essere, la dimensione esistenziale del misconoscimento dell’essere – che lo investe quando sa leggere l’esistenza unicamente in termini quantitativi, efficientistici e tecnologici. E Marcel cita come esempio il percorso di Agostino, uno dei più grandi ‘itineranti’ alla ricerca dell’Assoluto, il cui cuore seppe combattere e vincere per sempre l’inquietudine e la mancanza di pace; a lui si deve il ‘canto del viandante’, contenuto in uno dei discorsi (il n° 256) rivolti al suo popolo:
«Cantiamo qui l’alleluia [6], mentre siamo ancora privi di sicurezza, per poterlo cantare lassù, ormai sicuri. O felice quell’alleluia cantato lassù! O alleluia di sicurezza e di pace! Ivi risuoneranno le lodi di Dio. Certo risuonano anche ora qui. Qui però nell’ansia, mentre lassù nella tranquillità. Qui cantiamo da morituri, lassù da immortali. Qui nella speranza, lassù nella realtà. Qui da esuli e pellegrini, lassù nella patria. Cantiamo da viandanti. Canta, ma cammina. Canta e cammina».
Bauman ci dice che il pellegrinaggio ormai sempre meno è una scelta eroica o santa, come invece era un tempo, e che i pellegrini si mettono in cammino per non perdersi nel ‘deserto’ in cui sono costretti a vivere:
Si può guardare indietro e ai propri passi nella sabbia e riconoscere una strada. Si può riflettere sulla strada fatta e vederla come un progresso verso, un passo in avanti, un avvicinarsi. [...] La destinazione, lo scopo del pellegrinaggio della vita, dà forma all’informe, trasforma il frammentario in un intero, dà continuità a ciò che è episodico [7].
Tuttavia proprio in quanto pellegrini, essi possono fare qualcosa che va oltre il semplice camminare: possono camminare ‘verso’.
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