PREMESSA
La prima citazione riassume gli obiettivi che la scuola dell’obbligo avrebbe dovuto perseguire secondo don Milani: in un’Italia in radicale trasformazione industriale, a Barbiana (Mugello), paese di forte emigrazione, don Lorenzo, che elaborando innovative strategie formative diede vita ad una scuola popolare per i figli delle persone rimaste tra quelle montagne, denunciava il permanere di fenomeni di esclusione legati all’origine sociale e il carattere fortemente selettivo della scuola. Della celeberrima Lettera a una professoressa – risultato di un anno di attività a Barbiana –, a distanza di tanti anni, ancora si parla, e non v’è anzi forse convegno scolastico ove la sua ‘presenza’ non si faccia sentire: era ed è una critica puntuale e attenta alla scuola elitaria (quella che boccia i figli dei poveri e promuove quelli dei ricchi), ospedale che cura i sani e respinge i malati e crea differenze a volte irrimediabili, scuola accusata insomma di far parti eguali tra diseguali. Certo le disuguaglianze restano invariate se la selezione fatta per mezzo delle bocciature viene sostituita con quella derivata dal frequentare una scuola carente, non stimolante[1], poco esigente, povera di contenuti, astenica nell’appassionare gli studenti e incapace di renderli liberi di scegliere, di diventare protagonisti del loro futuro attraverso il sapere, il saper fare, il saper essere – e il saper diventare –, in ottemperanza al progetto perseguito dalla strategia di Lisbona, che auspicava di fare dell’Unione Europea l’economia più competitiva del mondo fondata sulla Conoscenza.
La giustizia è la prima virtù delle istituzioni, così come la verità lo è dei sistemi di
pensiero. Una teoria, per quanto semplice ed elegante, deve essere abbandonata o
modificata se non è vera. Allo stesso modo, leggi e istituzioni, non importa quanto
efficienti e ben congegnate, devono essere riformate o abolite se sono ingiuste.
pensiero. Una teoria, per quanto semplice ed elegante, deve essere abbandonata o
modificata se non è vera. Allo stesso modo, leggi e istituzioni, non importa quanto
efficienti e ben congegnate, devono essere riformate o abolite se sono ingiuste.
Questa citazione è invece del filosofo americano John Rawls, che la pose all’inizio della sua monumentale opera intitolata ‘A Theory of Justice’ (1971), in cui ‘giustizia’ viene intesa come equità. Se dunque giustizia ed equità possono essere considerati sinonimi, occorre distinguere invece eguaglianza ed equità: equità infatti include non solo eguaglianze e disuguaglianze ritenute giuste, ma anche libertà, risorse, inclusione. Per Rawls la concezione di giustizia si fonda sull’idea che tutti i beni sociali principali debbano essere distribuiti in modo uguale e che una distribuzione ineguale possa esserci solo se avvantaggia i più svantaggiati. I costi imposti ad alcuni andranno pertanto a compensazione dei benefici che ne ricaverà la maggioranza. Una società giusta non potrà dunque essere egualitaria in senso stretto. Interrogarsi sull’uguaglianza significa allora quindi interrogarsi su quali siano gli aspetti della vita umana che debbano essere resi eguali. Le risposte che hanno dato molteplici autori sono ovviamente diverse: Dworkin – che molto si è occupato di questo tema nei suoi studi di Diritto e di Giustizia distributiva – come eguaglianza proporzionale di risorse in relazione a meriti, sforzi e caratteristiche ascritte; gli Utilitaristi come uguale considerazione delle preferenze o delle utilità di tutti gli individui; Amartya Sen – economista indiano Premio Nobel nel 1998 – collega invece il valore eguaglianza (why equality? equality of what?) al valore libertà, e connette quest’ultima ai concetti di “funzionamenti”[2] e “capacità”.[3]
C’è contrasto sul significato preciso di eguaglianza, sulla relazione tra giustizia ed
eguaglianza (i principi di eguaglianza), sulle caratteristiche e la misurazione
dell’eguaglianza (eguaglianza di cosa?), sulla sua estensione (eguaglianza fra chi?) e sul
suo stato all’interno di una teoria.
eguaglianza (i principi di eguaglianza), sulle caratteristiche e la misurazione
dell’eguaglianza (eguaglianza di cosa?), sulla sua estensione (eguaglianza fra chi?) e sul
suo stato all’interno di una teoria.
Anche la terza citazione infine, reperibile nella Stanford Enciclopaedia of Philosophy (in Ribolzi, 2009)[4], suscita una serie analoga di problemi natura sociale oltre che retorica (l’egalitè, dalla Rivoluzione francese in poi, è stata uno dei cavalli di battaglia più cavalcati dai politici). La tendenza attuale è quella di ritenere che alle ormai fatidiche tre “E” (Efficienza, Efficacia ed Equità)[5], ne vada aggiunta una quarta, quella di Eguaglianza, su cui tuttavia cade un accento negativo (egualitarismo?), costituendo un peggioramento delle altre tre componenti, nel senso di ampliamento del divario, spreco e abbattimento della qualità. Se anche la genetica d’altronde assicura che le popolazioni diversificate hanno una probabilità di adattarsi agli ambienti in rapida evoluzione molto più elevata rispetto a quella delle popolazioni omogenee, allora la diversità - e non l’eguaglianza - è fonte di miglioramento (Willie, 2002).
Portando allora questi ragionamenti al tema Scuola & Selezione sociale, volendo indagare
sull’ipotesi di una scuola ‘di tutti e di ciascuno’, vorrei ora esaminare alcune declinazioni possibili
dei criteri di giustizia/equità, concordando con Taylor (2002) quando afferma che una scuola (e
una società) equa è in grado di garantire l’uguaglianza a partire dalla diversità.[6]
EQUITÀ COME EGUAGLIANZA DI OPPORTUNITÀ?
Il sistema-scuola, nelle società industrializzate, è un punto focale del processo di classificazione e di
allocazione delle persone in funzione del lavoro e la selezione sociale è il suo risultato forse più
immediato e ovvio. Innegabile il nesso tra le qualifiche educative e le aspirazioni alla mobilità e, di
conseguenza, alle occupazioni lavorative. Le statistiche dimostrano che esiste un rapporto
direttamente proporzionale tra reddito e titolo di studio conseguito, anche se va detto che nel
nostro Paese purtroppo un titolo di laurea per esempio procura vantaggi di reddito assai meno
evidenti rispetto a quanto invece accade in altre realtà. L’idea di opportunità come possibilità di
conseguire uno status più elevato si è diffusa gradualmente dagli USA[7] all’Europa, dove nel periodo
postbellico ci si rese conto che i canali della mobilità ascendente tramite l’iniziativa personale nel
business di grande e medio impatto non erano più tanto scontati, preferendo così investire
sull’istruzione superiore. Diplomi e lauree dunque per ricoprire i posti di lavoro più remunerativi e
più prestigiosi, anche se ovviamente l’intraprendenza personale non è mai venuta meno come
strada per arrivare al successo economico-sociale. Il credenzialismo[8], se pure ha assunto la veste di
sistema di sistema di selezione sociale (qualifiche di alto livello sono tacitamente implicite per
occupare posizioni di rilievo – in termini di prestigio e remunerazione – nelle organizzazioni), è
stato oggetto anche di letture in negativo: l’iter accademico solo raramente e per un numero
limitato di professioni prepara realmente al concreto svolgimento del lavoro, il titolo di studio
spesso segnala/conferma semplicemente l’appartenenza a un certo status, lavoratori ben
‘addestrati’, se pure meno istruiti, richiedono al datore di lavoro retribuzioni decisamente inferiori
rispetto a quelle richieste da chi invece è in possesso di alto titolo di studio… Il titolo di studio
pertanto va ritenuto principalmente un indicatore di caratteristiche appetibili dal punto di vista
economico, poiché in genere comporta alcune capacità e competenze trasversali in larga parte
prodotti dell’ethos accademico: acquisire nuove abilità (Bills, 2003; Spence, 1974), sapersi
concentrare con impegno e autodisciplina sul compito affidato, risolvere problemi, usare le
informazioni in maniera efficace, organizzarsi, adattarsi più facilmente a nuovi incarichi
(trainability, secondo la denominazione di Thurow, 1973). Ovvia conseguenza dell’aumento (con
rischio di inflazione)[9] delle ‘credenziali’ è lo spostamento dell’attenzione sempre maggiore verso le
votazioni conseguite, il numero di anni necessario per arrivare a tale risultato, il prestigio
dell’ateneo di provenienza, le specializzazioni e i master citabili nei curricula. Ecco che
l’aspirazione alla mobilità ascendente non può che innalzare i requisiti di istruzione a un livello
ancora più elevato e che sono andate formandosi nel tempo, grazie alle azioni di associazioni
professionali, autorità politiche e istituzioni scolastiche specifiche, nicchie occupazionali di
appannaggio praticamente riservato a candidati in possesso di credenziali superspecializzate. La
domanda allora è: quanto è equo questo nuovo sistema di accesso al mondo del lavoro? Il capitale
culturale e sociale di famiglia è davvero diventato meno importante? Per tentare di rispondere a
questi interrogativi inerenti la distribuzione delle opportunità nella società delle credenziali, ci si
può riferire a due prospettive: una basata sull’idea di meritocrazia e l’altra su quella di riproduzione
sociale.
Michael Young, il sociologo inglese cui si fa risalire il conio del vocabolo ‘meritocrazia’ (The Rise of
Meritocracy, 1958), la definiva il sistema di valori che promuove l’eccellenza a prescindere
dall’etnia di provenienza delle persone impegnate nei processi operativi. Pertanto, le società
sensibili all’impostazione meritocratica dei propri processi lavorativi e professionali
focalizzerebbero l’attenzione sulle persone migliori e ne favorirebbero l’ascesa, nella scala delle
responsabilità e delle funzioni, nell’ottica attuativa della formula Intelligenza + Sforzo = Merito.
Attualmente il termine meritocrazia viene usato nell’accezione di primato delle persone
intellettualmente più capaci.[10] Conant e altri autori della metà del XX secolo, erano convinti che,
poiché il talento non poteva che essere distribuito in modo diffuso e non concentrato in
determinate categorie ai vertici della struttura sociale, offrendo a tutti gli studenti – più o meno
svantaggiati o privilegiati che fossero – le identiche opportunità di istruzione e formazione sin
dall’inizio del percorso scolastico, la società avrebbe poi potuto selezionare i ‘migliori’ (aristocrazia
del talento) per doti intellettive e meriti e quindi far loro ricoprire le posizioni lavorative più
importanti. Certamente, infatti, la società non può che trarre profitto dalla valorizzazione dei
talenti. Dissentono da questa impostazione i teorici della riproduzione sociale, che invece
sostengono che la redistribuzione automatica prevista non ha di fatto luogo e che l’aristocrazia del
talento non fa che perpetuare invece lo status ereditato dalla famiglia e dal ceto di appartenenza: la pretesa di equità della meritocrazia di fatto non esiste. Bowles e Gintis considerano la Scuola
destinata a legittimare la disparità e la struttura di classe, oltre che limitante la capacità della
società di far emergere e risaltare il merito. Pare dunque possibile concludere però che né la sola
intelligenza[11] (capacità cognitive) individuale, né le sole caratteristiche di status (costellazione di
privilegi connessi all’estrazione sociale) da sole siano condicio sine qua non sufficiente per
assicurarsi il successo ai massimi livelli, se pure qualità e caratteristiche necessariamente
irrinunciabili: i mercati infatti non effettuano compensazioni secondo gli stessi standard di merito
della scuola. Essere al posto giusto al momento giusto ancora conta, così come è essenziale avere
‘fiuto’ per intuire le opportunità offerte dal mercato. Negli Stati Uniti, la persona con le migliori
possibilità di successo nella vita, quindi – chiosa Steven Brint[12] –, è un maschio bianco, nato in una
famiglia di elevata condizione sociale, con i genitori uniti, dove sia apprezzata l’istruzione; che
abbia un alto quoziente intellettivo e sia circondato da compagni altrettanto motivati; che segua
lezioni di indirizzo accademico, soprattutto matematica e scienze, ottenga buoni voti a scuola e
rimanga convinto della sua possibilità di ottenere successo. Uno studio sui laureati alla
Sapienza di Roma e alla Ca’ Foscari di Venezia giunge alla seguente conclusione: ‘La probabilità che
un laureato consegua una posizione professionale elevata cambia sostanzialmente a seconda
della sua provenienza sociale. In particolare, nelle posizioni di più alto livello (imprenditore,
libero professionista, dirigente) si assiste a un autoreclutamento all’interno dello stesso ceto
sociale. Il che è dovuto solo in parte alla scelta di percorsi di studio con diversa redditività sul
mercato, dato che indipendentemente dalla spendibilità di un titolo, la provenienza sociale può
creare delle corsie preferenziali di accesso verso segmenti che si collocano al centro o alla
periferia del mercato del lavoro, inserendo il laureato in circuiti professionali più o meno
virtuosi’[13]. Insomma: l’apertura degli accessi non è sufficiente, poichè la differenza dei punti di
partenza inesorabilmente conferisce un carattere assai poco ‘sportivo’ della gara, il cui esito risulta
‘truccato’ dalle contingenze sociali e naturali.
EQUITÀ COME EGUAGLIANZA DI DIRITTI?
Fin dall’antichità quello della Giustizia[14] è stato un tema assai dibattuto; Aristotele[15] la intendeva
come ricerca dell’equilibrio e dell’equità in rapporto a noi stessi e in rapporto agli altri. Sua è anche
la distinzione tra giustizia distributiva e giustizia commutativa, che rispettivamente prevedono
una distribuzione sociale dei beni e delle risorse in base ai meriti che ognuno acquisisce
contribuendo alla loro produzione e riproduzione, e una tendenza a pareggiare vantaggi/svantaggi
nei rapporti sociali, volontari o involontari. Mentre la prima forma di giustizia quindi diffonde la
cultura dei doveri e della responsabilità, la seconda diffonde amore e pietas, avendo funzione
caritativa e benevolente.
Ogni lesione a entrambi i tipi di giustizia è dunque un’ingiuria che provoca sofferenza e che pertanto richiede una riparazione. Parlare di eguaglianza di diritti nella Scuola, significa tenere sempre presenti anche le finalità attribuite alle scuole pubbliche dalla Convenzione internazionale dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, ratificata nel 1992 dal Parlamento italiano, pensare alla Costituzione[16] e alle Leggi istitutive degli ordinamenti. In un senso allargato allora si può considerare come ‘giusta’ quella scuola che ‘mantiene gli impegni e le promesse’ espresse nei propri documenti di Progetto, dal POF alle programmazioni didattiche dei docenti.
Ancora una nota però sul ruolo né imparziale né neutro dei docenti nella riproduzione delle
disuguaglianze, non sempre infatti professionisti dediti alla trasmissione di patrimonio culturale in
modo libero da influenze: le loro aspettative, infatti, purtroppo talvolta influiscono non poco sui
‘pari diritti’ di ricevere lo stesso tipo di attenzione/istruzione degli studenti, come già dimostrò il
noto lavoro (anni ’60), di Rosenthal e Jacobson, in cui veniva messo in evidenza il peso delle
aspettative nell’orientare, sostenere, classificare, valutare i propri allievi, con l’obiettivo di superare
la teoria del deficit[17], per interrogarsi sulle pratiche professionali che conducono ad esiti di
inclusione/esclusione. Secondo tali autori, nella Scuola si innescano con facilità meccanismi di
profezia che si autoadempie, attraverso cui le rappresentazioni e definizioni sociali dei docenti
contribuiscono alle definizioni e rappresentazioni che le persone hanno di sé in quanto
buoni/cattivi allievi. Tali profezie vengono poi incorniciate – come sostiene Queirolo Palmas[18] – in
profezie istituzionali (graduatorie, voti, risultati negli esami), con tutta la forza della routine
burocratica, che spesso diviene il linguaggio di comunicazione fra scuole e insegnanti. La causa
dello scarso rendimento scolastico dei bambini svantaggiati viene di solito semplicemente
identificata nel fatto che questi bambini appartengono a un gruppo svantaggiato. Ma vi può
essere anche un’altra causa: il bambino ha uno scarso rendimento perché è esattamente quello
che ci si aspetta da lui. In altre parole, le sue deficienze possono essere dovute non alle
caratteristiche etniche, culturali od economiche del suo ambiente di origine, ma alla risposta
dell’insegnante a queste caratteristiche.[19]
EQUITÀ COME CUSTOMER SATISFACTION?
Il riferimento teorico è all’etica utilitarista (l’individuo è il giudice ultimo di ciò che è bene per sé),
attenta alle conseguenze delle azioni sul benessere del maggior numero possibile di persone. Dal
punto di vista scolastico questo approccio provoca uno spostamento dell’attenzione sulle domande
e sulle attese delle famiglie, ispirando le impostazioni di customer satisfation, di ascolto e
considerazione delle percezioni e dei giudizi del cliente/fruitore, oltre che le politiche di ‘Stato
minimo’ e di privatizzazione della Scuola, finalizzate a restituire alle famiglie e/o alle comunità
religiose, nazionali, etniche la funzione di educare, da cui lo Stato le ha in pratica storicamente
espropriate dalla formazione degli Stati Nazionali in poi. Insomma: ‘a ciascuno secondo le sue
preferenze’ potrebbe essere in questo caso il criterio di giustizia/equità.
Restando in questo ambito, occorre un accenno anche alle disparità etniche, dato che, anche se gli
studi non la confermano, è opinione di molti che la razza e l’etnia[20] siano ancora oggi tra le basi più
importanti della disuguaglianza nella nostra società ‘liquida’, come la definisce Bauman. Il
rapporto tra razza e istruzione dipende da alcune caratteristiche specifiche dei diversi gruppi
minoritari, quali per es. le risorse culturali, gli atteggiamenti verso l’istruzione, il trattamento che il
gruppo riceve da parte di altri gruppi, la motivazione a integrarsi nella cultura ‘nuova’, il peso delle
opportunità economiche ristrette, la legislazione di esclusione, i pregiudizi culturali… Se le
politiche assimilazioniste chiedono l’omologazione alla cultura del Paese ospitante, l’approccio
interculturale tende a costruire spazi di relazione e di confronto ravvicinato tra le molteplici
appartenenze di ogni persona, l’approccio comunitario e multiculturale ricerca la separatezza come
via per coltivare le differenze e la specifica identità di ogni gruppo, l’equità in questo discorso si
pone come “consolidamento delle appartenenze comunitarie”. Se a ciascuna comunità dovrebbero
spettare uguali risorse, opportunità e diritti, e a ciascun gruppo il riconoscimento della propria cultura, all’interno della scuola pubblica dovrebbero essere pensate e realizzate politiche e decisioni tese appunto a riconoscere e valorizzare le ‘culture’ di gruppi di alunni. La società americana – afferma ancora Brint - sottoscrive gli ideali del pluralismo culturale e delle pari opportunità e in qualche misura le scuole rispettano questi ideali, quando sviluppano programmi per sostenere gli alunni più dotati di origini sociali più svantaggiate. L’educazione è un bene comune non a somma zero e quindi averne di più non comporta il sottrarne agli altri.
EQUITÀ COME SVILUPPO DELLE CAPACITÀ DI CITTADINANZA?
Dal pensiero dell’economista A. Sen, il sopracitato ispiratore del Programma di sviluppo delle
Nazioni Unite, riprendiamo il concetto di ‘capacità’: lo sviluppo umano non è misurabile solo
tramite indicatori economici, ma anche attraverso indicatori di “qualità della vita” tra cui i livelli di
istruzione. A parità di reddito si accede a diversi gradi possibilità di vita a seconda della situazione
politica, sanitaria, scolastica dei diversi Paesi. Pur non volendo negare l’importanza della
distribuzione delle risorse attribuite con politiche di ‘discriminazione positiva’, si preferisce
focalizzare l’attenzione sulla capacità di convertire le risorse in effettiva libertà di scelta o
potenzialità di vita (capabilities). Il concetto di “soglia di inclusione nella cittadinanza”
diventa un elemento chiave di questa posizione; scopo primario è contrastare l’esclusione e
potenziare i processi di inclusione, il rispetto di sé, nonché la partecipazione alla vita della propria
comunità. Ecco che la Scuola, secondo questo approccio, sia come sistema sia come singolo istituto, non può che impegnarsi nell’individuazione di una soglia minima di competenze di cittadinanza e misurarne il raggiungimento. Anche Rawles (ripreso da Meuret) ritiene che il punto di partenza per un sistema formativo più equo possa essere proprio l’idea di soglia: determinarne un livello minimo che tutti devono raggiungere è necessario per la distribuzione equa di un bene. Nel caso della Scuola quindi tale soglia coincide con la determinazione degli standard minimi di apprendimento dell’obbligo. Superata questa esistono infatti due strategie: il cosiddetto Matthew effect[21] (Merton), consistente nell’investire maggiori risorse per promuovere i più dotati e ottenere esiti sociali migliori, che poi posso essere redistribuiti tra i partecipanti in proporzione a quanto hanno già (conseguenza negativa: allargamento della forbice tra i due estremi), e l’effetto Robin Hood, ossia l’investire maggiori risorse per promuovere le persone meno dotate, per ridurre le disparità e aumentare il livello medio (conseguenza negativa: mancato ottenimento dell’eccellenza con un appiattimento invece sui valori medi).
Gli allievi con minore capitale culturale non impediscono infatti, a quelli che ne sono più dotati, di apprendere quanto potrebbero. In una classe scolastica eterogenea se gli allievi deboli traggono il vantaggio più ampio, anche quelli forti ne beneficiano, soprattutto se si utilizza una didattica cooperativa che stimola questi ultimi ad aiutare i primi, fungendo da tutor per i compagni: in questo modo gli studenti più capaci finiscono per imparare di più e meglio di quanto sarebbe possibile in una classe di ottimi allievi in competizione (L. Fischer). L’eterogeneità delle classi e delle scuole può essere gestita a vantaggio di tutti gli allievi, poiché le pedagogie più egualitarie sono anche le più efficaci (Crahay, 2000). Ormai in tutti i Paesi sviluppati vi è un’ampia immigrazione, del resto ritenuta economicamente indispensabile, che rende ancora più necessaria tale mescolanza: la scuola su misura deve lasciare il posto alla scuola della diversità.
EQUITÀ COME “POSSIBILITÀ DI ESPRIMERE SE STESSI ED ESSERE FELICI”?
Gli studi più recenti dell’israeliano Daniel Kahneman, premio Nobel per l’Economia[22] nel 2002 e
personalità scientifica di spicco nella vasta recente ripresa di studi all’intersezione tra discipline
economiche e psicologiche, hanno dato crescente rilievo alla definizione concettuale e alla misura
del benessere e della felicità, muovendo dalla vistosa distorsione che affligge le economie
contemporanee e che consiste in un eccesso di risorse destinate a fenomeni di comfort (che si
accompagnano a un atteggiamento passivo nel consumatore) a scapito di una più adeguata
destinazione di risorse a fonti di stimolo e di felicità. Le ricerche sviluppate hanno avuto
prevalentemente lo scopo pratico di fornire un indicatore alternativo rispetto al reddito, un indice
del benessere nazionale. Il re del Buthan, Sua Altezza Jigme Singye Wangchuck, aveva deciso di far calcolare gli obiettivi annuali di crescita del suo Paese in termini di ‘Felicità interna lorda’ o Fil
(Gross national happiness o Gnh) invece di usare il classico parametro del ‘Prodotto interno lordo’
o Pil (Gross domestic product): il Fil cerca di afferrare valori meno materiali e più spirituali, sulla
base del principio che più ricchezza non vuol dire più felicità e che il compito di un governo quindi
deve essere massimizzare la felicità dei cittadini e non il loro reddito. L’idea è stata ripresa
dall’economista britannico Richard Layard nel suo libro Happiness, in cui sostiene che la politica
deve smettere di occuparsi solo di crescita economica, ma invece focalizzarsi su «sette grandi aree»
da cui dipende il benessere delle persone: le relazioni familiari, la situazione finanziaria, il lavoro,
la comunità e gli amici, la salute, la libertà personale, i valori personali.[23]
Tutto questo forse per tentare di rispondere a un ulteriore quesito, dopo i tanti fino ad ora già
espressi: più equità, più felicità? Ma è poi davvero possibile misurare l’influenza dell’educazione sul
ben-essere?
Il pensiero pedagogico libertario attribuisce alla scuola una funzione espressiva e disinteressata, ne
rifiuta una funzione strumentale, nel senso di subalterna alle esigenze dello Stato (di formazione
del cittadino), delle imprese (di formazione del lavoratore), delle comunità di appartenenza (di
conservazione delle differenze e delle tradizioni). Il giovane alunno non può essere ‘ridotto’ al
futuro cittadino-lavoratore, avendo bisogni più larghi e più complessi che coinvolgono certamente
tutte le sue dimensioni (cognitiva, affettiva, corporea, estetica…) e le sue intelligenze (al plurale,
come afferma Gardner)[24], poco o addirittura per niente riconosciute da curricoli scolastici che
hanno selezionato i saperi e organizzato orari e contesti in funzione delle richieste della politica e
dell’economia.
Lo scopo primario dell’educazione è la felicità[25] intesa non in senso banalmente edonistico, ma
come espansione del sé, attribuzione di senso alle attività, costruzione di significati personali
propri di ogni età.
Nella scuola si devono poter trovare le condizioni perché il bambino sia felice hic et nunc: sacrificare il suo presente al futuro è inutile e probabilmente doloroso, se la formazione si riduce a essere una sorta di preparazione alla vita futura, senza riuscire ad essere di per sé un momento significativo e felice in ogni fase della vita, anche adulta, viste le prospettive della life span psychology e del life long learning.
La nozione di felicità diventa allora cruciale sia per rilanciare una autonoma progettualità
pedagogica nei curricoli (rigerarchizzare i saperi, trasformare le modalità di insegnamento/
apprendimento, adeguare tempi e spazi della Scuola), sia per l’equità, perché una scuola è equa se
prima di tutto rispetta le diverse intelligenze degli studenti, offrendo loro le opportunità per
esprimerle. La Scuola non produce semplicemente un servizio o un bene, ma ha un ruolo basilare
di tipo trasformativo[26], collegato al controllo della complessità della società.[27] Molta strada andrà
ancora percorsa per abbattere lo stereotipo, duro a morire, secondo il quale l’educazione viene
identificata più che altro come un bene da usare per avere qualcosa in cambio: bisogna imparare a
coglierne piuttosto il potenziale di realizzazione personale, nel traslare le persone verso una meta,
rispettando la loro diversità.[28]
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