Philip L. Pearce [1], già Professore e Assessore al Turismo del programma School of Business_James Cook University (Australia), ha identificato 15 tipi di viaggiatore, correlando i loro diversi ruoli a specifiche caratteristiche comportamentali: Turista (scatta fotografie, compra souvenir, visita luoghi famosi, soggiorna in un posto, non comprende la popolazione locale), Viaggiatore (traveller - soggiorna brevemente in un posto, sperimenta il cibo locale, scatta fotografie, esplora luoghi da privato), Vacanziero, Turista del jet set (jet setter), Uomo d’affari, Migrante, Conservatore, Esploratore, Missionario, Studente d’oltreoceano, Antropologo, Hippie, Atleta internazionale, Giornalista d’oltreoceano, Pellegrino.
L’antropologo Duccio Canestrini ritiene invece che la distinzione classica tra ‘turista’ (chiunque compia un tour – ‘giro’ – per poi tornare a casa) e ‘viaggiatore’ (chiunque parta, si metta in viaggio) sia ormai poco sostenibile, visto che le differenze sono più che evidenti:
'dove il viaggiatore è attivo, il turista è passivo; dove il viaggiatore è curioso, il turista è annoiato. L’eroe del viaggio di stampo romantico è in effetti inseguito da un’ombra: il turista, che ne scimmiotta le gesta, senza nobiltà e senza cultura. In pratica, il turista sarebbe un viaggiatore senza qualità' [2].
Moltissimi autori, poeti, filosofi, letterati, hanno dissertato di viaggi e viaggiatori: mi piace ricordare Baudelaire, quando parlava dei ‘veri’ viaggiatori, che a suo parere sono coloro che partono per partire, i cuori leggeri, coloro che hanno desideri simili alle nubi e che sognano delle vaste voluttà cangianti e sconosciute, delle quali lo spirito umano non ha probabilmente mai saputo il nome; o Moravia, quando afferma che nel viaggiare non conta l’immaginario, ma il reale, che però sia ignoto, vergine, mai visto: lo stupore, conta, il che è appunto il contrario dell’immaginazione. L’incantamento. O ancora Calvino, quando afferma che di una città non si godono le sette o le settantasette meraviglie, ma la risposta che esse offrono alle proprie domande, o le domande che pongono obbligando a rispondere. E che dire di: Viaggia se ambisci a un valore certo. Percorrendo i cieli, la mezzaluna diventa piena, poetico pensiero di ibn-Zalaqis (XIII sec.)? Oppure di quello di sant'Agostino: Il mondo è un libro e quelli che non viaggiano ne leggono solo una pagina?
Giustamente Marco Aime, antropologo culturale, dice che il viaggio, che è un reinventarsi continuo dei pensieri e dei sensi davanti a paesaggi e volti nuovi, nasce nella testa, ma per esistere ha bisogno di assorbire linfa attraverso i sensi; il viaggio è movimento, non solo del corpo, anche della percezione e questo sicuramente vale anche sia per il pellegrino che per il turista religioso.
Bauman in La società dell’incertezza (1999 [3]) sottolinea la velocità con cui si svolge la vita attuale, che in pratica non lascia tempo a nessuno di pensare progetti approfonditi e complessi, aggiungendo una specie di impotenza diffusa all’inganno generale delle regole del gioco, che cambiano prima ancora che il gioco termini, il che fa riflettere sul dato che tutto è calcolato per ottenere il massimo impatto ma anche l’istantanea obsolescenza, visto che le nuove informazioni devono farsi immediatamente strada a scapito di quelle appena precedenti. Il tempo allora pare non poter più fluire, ma essere una serie disordinata di frammenti episodici.
'Nessuna strategia di vita che abbia una certa coerenza o coesione emerge dall’esperienza che si può fare in un tale mondo – nessuna che vagamente ricordi il senso di scopo e l’austera determinazione del pellegrinaggio' [4].
Evidenti le implicazioni: i viaggi devono essere programmati in modo da non essere troppo lunghi, per poter più facilmente essere portati a termine; non è più forse nemmeno possibile provare un attaccamento nei riguardi delle persone incontrate durante le soste – instaurare legami ‘liquidi’[ 5] rende più semplice il proprio procedere; è meglio non differire la gratificazione, che magari ‘domani’ non sarà in ugual misura così piacevole, e così via. Così, come il pellegrino era la metafora più consona alle strategie della vita moderna [6], che si proponevano di costruire un’identità, l’insieme degli ‘eredi’ del pellegrino, pur esistendo già precedentemente, può assurgere a metafora della strategia post-moderna, che trova inconcepibile l’essere legati a qualcuno o ancorati a qualche cosa per lungo tempo. Ma chi sono questi eredi del pellegrino? Bauman ne identifica quattro tipologie:
- il flâneur (‘bighellone’, ‘colui che passeggia’), nato dalla penna di Charles Baudelaire che lo tratteggia come l’artista moderno immerso nel flusso della vita urbana, oggi non va più nemmeno inteso come quella figura scolpita in forma indimenticabile nelle pagine – baudelairiane appunto – di Walter Benjamin [7], che lo riteneva una figura simbolica della città moderna. Il moderno flâneur non subisce più il dépaysement della folla, ma si immerge negli spazi più decentrati e marginali dove oggi si produce e si distorce la socialità della metropoli, si costruisce, si disgrega e si consuma il nesso sociale. Qui, il moderno flâneur si presenta come una figura di valenza sociologicamente rilevante, tanto più che l’orizzonte del suo errare si allarga verso le prospettive della cosiddetta ‘società immateriale’ (il viaggiare, il navigare in rete, il comunicare in permanenza, eccetera), intese come apertura verso un continente dell’immaginazione (appunto sociologica) impensabile fino a poco tempo fa [8].
Anche il sociologo tedesco Georg Simmel [9] già si era interessato ('La metropoli e la vita dello spirito', 1900) alle ripercussioni sulla psiche dell’uomo ‘metropolitano’, costantemente bombardato da stimoli e immagini che, se da una parte gli eccitano la coscienza, al contempo gli provocano un sovraccarico emotivo, una sorta di choc sensoriale continuo, che innesca una reazione difensiva intellettuale per attutire i ‘colpi’, appoggiando cose e sensazioni su un piano di ‘neutralità oggettiva’ nei confronti del mondo. Simmel, capovolgendo l’immagine del flâneur, trovava il blasé, il disincantato, colui che risulta essere il portato ultimo del processo di stress sensorio-emotivo, in atto nella metropoli.
Per tornare a Bauman, si può dire che gli interessa sottolineare quanto lo stile di vita del flâneur fosse ben lontano da quello del pellegrino: in pratica, infatti, tutto ciò che quest’ultimo faceva con la massima serietà, viene decisamente irriso – giocosamente irriso – dal flâneur, l’uomo dello svago, che ‘ai margini della vita vera’, passeggia nei shopping malls[10], nelle Arcades o nel mondo (apparente) mediato dallo schermo della ‘telecittà’ (Henning Bech, 1992).
- Il vagabondo: a differenza del pellegrino non ha alcuna destinazione, alcun itinerario fisso (cosa che, al tempo della modernità, lo rendeva odiosamente sfuggente alla rete di controllo locale [11]), e non se ne preoccupa affatto, come neppure si cura di quanto sosterà in un determinato luogo. Le speranze frustate sono alle sue spalle, quelle non attuate lo spingono in avanti. Dunque facile da tenere sotto controllo il pellegrino, imprevedibile il vagabondo [12], che proprio grazie alla sua marginalità e alla sua mancanza di radici e di stabilità (dovunque egli vada è un estraneo), corrisponde al mondo in cui ora si trova a vivere.
- Il giocatore: chi pratica un’attività di svago o un gioco sportivo, uno scommettitore (chi gioca abitualmente d’azzardo). Roger Caillois[13], saggista eclettico, sociologo e critico francese, tentò una classificazione del gioco[14] in base alle tipologie e alle motivazioni che ne stanno alla base: giochi di competizione (agon); giochi di azzardo (alea), in cui la fortuna è il fattore primario; giochi di simulacro (mimicry), in cui il travestimento, l’imitazione o l’illusione dominano; giochi di vertigine (ilinx) in cui si provoca se stessi (vertigine fisica, sport estremi).
Bauman evidenzia che il gioco rappresenta un mondo dove nulla è completamente prevedibile o controllabile, ma nulla è del tutto irrevocabile. Tutto è elusivo. Esistono solo ‘mosse’ che il giocatore deve prevedere, intuire, impedire, anticipare.
Non va nemmeno minimizzata la sfera apparentemente vincente dei popolatissimi mondi virtuali, videogame on line o società digitali in genere, in cui i giocatori, muniti di corpi di pixel, assumono le sembianze di avatar [15], che ne costituiscono la rappresentazione digitale all’interno di un universo parallelo: chi è ‘al di qua’ dello schermo identifica digitalmente se stesso, all’interno della comunità nella sua proiezione sintetica. Anche se molte Università ed aziende stanno usando Second Life [16], uno dei più apprezzati mondi virtuali, per raggiungere obiettivi di apprendimento, sperimentazione e formazione, non mancano le critiche da parte di psichiatri e terapeuti che ne colgono il lato oscuro, i possibili rischi causati dallo sdoppiamento di vita, considerandolo un ambiente pericoloso nel caso gli utenti si persuadano che non si tratti di una finzione, quale invece ovviamente questo metamondo è.
- Il turista: in movimento, ma ‘mai del posto’, cosa che però valeva anche per il vagabondo, questo individuo vuole arricchire il suo bagaglio di una nuova (anche eventualmente strana, diversa, stravagante, ma pur sempre per così dire addomesticata) esperienza, tanto che potrebbe essere definito un ricercatore cosciente e sistematico di esperienza. Il turista, quando decide di uscire momentaneamente dalla serenità della sua casa (casa come appartenenza, come creatrice del senso di essere ‘del posto’), crede fermamente nel suo diritto di non essere disturbato, ma vuole divertirsi ed essere eccitato quanto basta dal mondo estetizzato che incontra (inteso come ‘essere in un posto’), che lo deve però anche compiacere.
Turismo, dall’inglese tour (‘giro’, viaggio a scopo ricreativo), a sua volta derivato dal greco tórnos, attraverso il latino tornus (‘tornio’), il termine divenne comune intorno al 1800 [17], passando prima nel francese touriste. Il turismo è un fatto sociale totale, che può essere studiato dal punto di vista psicologico (comportamento psicologicamente orientato) o socioantropologico (azione sociale tipica delle società occidentali industrializzate; rito di passaggio; momento di cambiamento e rinnovamento da parte di chi lo pratica, quasi una sorta di versione laica della ricerca del Sacro [18], del viaggio spirituale di medievale memoria, etc.), tema comunque di enorme interesse, dato il giro di affari e il numero impressionante di persone che coinvolge. Il turismo è infatti una delle maggiori industrie del mondo (pur assai soggetta alla moda e ai mutamenti di valori), che produce un’enorme ricchezza economica e culturale: comporta dunque anche lo sviluppo di una schiera di professionisti che usano la loro creatività per tentare di riprodurre oggetti e mete sempre nuovi, finalizzati a catturare l’attenzione dei loro ‘clienti’.
Il turismo, che mostra aspetti tanto moderni quanto antichi, sulla cui evoluzione hanno giocato lo sviluppo dei mezzi e delle vie di trasporto, oltre che della tecnologia, è dunque un’attività del tempo libero [19] (che dovrebbe contribuire al ‘ricrearsi’ del soggetto) che presuppone il suo opposto, ovvero il lavoro regolato e organizzato: è perciò favorito da un’elevazione dei redditi individuali; nei Paesi ‘ricchi’, infatti, l’evasione serve per ammortizzare i difetti della vita urbana e come tentativo di uscita dalla routine quotidiana e lavorativa.
Un turista – come afferma Erik Cohen, professore emerito del Dipartimento di Sociologia e Antropologia sociale presso The Hebrew University of Jerusalem: 'è un viaggiatore volontario[20], temporaneo, che viaggia con l’aspettativa del piacere derivato dalla novità e dal cambiamento che sperimenta in un viaggio circolare, relativamente lungo [21] e non ricorrente '[22].
Nel 1997, invece la World Tourism Organization propose la seguente definizione di turista:
'Chiunque viaggi in paesi diversi da quello in cui ha la sua residenza abituale, al di fuori del proprio ambiente quotidiano, per un periodo di almeno una notte ma non superiore ad un anno e il cui scopo principale della visita sia diverso dall’esercizio di ogni attività remunerata all’interno del paese visitato. In questo termine sono inclusi coloro che viaggiano per: svago, riposo e vacanza, per visitare amici e parenti, per motivi di affari e professionali, per motivi di salute, religiosi/pellegrinaggio e altro'.
Moltissimi gli autori che si sono dedicati all’analisi delle motivazioni che sottostanno la scelta di compiere un viaggio. Emilio Benini ed Asterio Savelli [23], che si occupano di Sociologia del turismo, presso l’Università di Bologna, per esempio le hanno analizzate distinguendo i fattori di spinta (push) che portano al desiderio di andare in vacanza e i fattori d’attrazione (pull) che le diverse aree di interesse esercitano sul turista. Cinque le macrocategorie motivazionali sintetizzate [24]:
soggettualità
senso di curiosità, di interesse, di scoperta, di opportunità, di ‘divagazione’ della vacanza, vale a dire gli aspetti più soggettivi di gratificazione del viaggio, e di investimento personale;
sicurezza
senso di certezza che i luoghi di vacanza devono trasmettere (vs senso di insicurezza dato dalle grandi città); possibilità di relax, propria dei luoghi percepiti come sicuri, ma anche efficaci ed efficienti (una sorta di seconda casa);
trasgressione
voglia di divertimento, senso di vedere i limiti, vacanza come ‘straordinario’ rispetto all’ordinario della vita quotidiana; sensualità;
economicità
senso di un qualcosa che non sottragga reddito ad altri consumi e ad altre opportunità; facilità; accessibilità senza problemi di un consumo visto ormai come necessario;
status
gratificazione sociale; prestigio; racconto da fare; qualcosa da mostrare; traguardo raggiunto.
Il viaggio viene vissuto dunque, prima di tutto, come una specie di sperimentazione di sé, in quanto il turista acquisisce esperienze e subisce trasformazioni, scopre alternative inimmaginate e ha l’occasione di svincolarsi dai lacci dei sistemi sociali. Lo spostamento geografico è pertanto avvertito come processo di introspezione, di presa di coscienza, ed avviene in un arco di tempo in cui la dimensione spazio-temporale metaforicamente simboleggia la scoperta di se stessi e degli altri.
All’origine di un viaggio spesso c’è un sogno: un nome che stimola la fantasia, un richiamo della strada, delle montagne, del mare, del deserto… e solo vivendo quel viaggio si capirà perché lo si doveva fare e si darà voce quella parte di sé che chiedeva di venir fuori (Capii che ci sono viaggi che scegliamo noi, e che ce ne sono altri dai quali veniamo scelti [25]).
Roberta Maeran e Claudio Novello[26], esperti in Psicologia del turismo, hanno raccolto, schematizzandole, le motivazioni secondo:
Radzik (1979)
Natura, Cultura, Rapporti sociali, Divertimenti locali
Cohen (1979)
Divertimento, Evasione, Ricerca di esperienza autentiche, Ricerca di esperienze alternative, Ricerca di un centro spirituale elettivo
Savelli (1980)
Compensazione rispetto all’attività lavorativa, Complementarietà tra lavoro e tempo libero
Traini (1984)
Riposo, Conoscenza interpersonali e culturali, Cambiamento positivo.
mentre Alessandro Mereu [27], anch’egli psicologo e studioso nella stessa materia, ne cita altre socio-psicologiche:
Crompton (1979)
Evasione dall’ambiente di vita quotidiano e abituale, Esplorazione e valutazione di se stessi, Rilassamento fisico e mentale, Prestigio, Regressione a forme di comportamento infantili o adolescenziali, Miglioramento e rafforzamento delle relazioni familiari e di amicizia, Facilitazione delle interazioni sociali.
Mannell, Iso-Ahola (1987)
Fuga dall’ambiente e dalla routine quotidiana, Ricerca di ricompense psicologiche.
Dall’Ara (1990)
Le motivazioni che riguardano il sè portano a viaggi ristoratori che possano ridare energia fisica e mentale all’individuo;
le motivazioni riguardanti l’altro da sè comprendono le vacanze in cui vi è la ricerca della trasgressione e dell’alterità;
le motivazioni riguardanti il dentro di sè portano a viaggi che hanno l’obiettivo di riscoprire il senso della vita e l’interiorità, avvengono spesso in luoghi lontani e poco frequentati.
Volendo ora tentare una scansione delle fasi del viaggio, se ne potrebbero delineare quattro:
- fase di anticipazione (valutazione delle possibili alternative della meta di vacanza; la consultazione può avvenire tra parenti, amici, conoscenti, agenzie di viaggio, siti web o media);
- fase del viaggio (comporta un parziale rimodellamento della propria immagine e talvolta anche una certa privazione della privacy: viaggi in aereo, treno, nave. La partenza è la fase caratterizzata dalle emozioni più intense, dato l’ovvio distacco da tutto ciò che è noto);
- fase del comportamento sul luogo (dipende dalla soddisfazione del turista e dalla qualità della relazione che instaura con le persone con cui viene a contatto);
- fase del viaggio di ritorno (rielaborazione di quanto è stato vissuto attraverso il ricordo, ma anche anticipazione di quello che gli accadrà a breve: ritorno al lavoro, ripresa della routine quotidiana).
Eric J. Leed, già professore americano di storia, presso la Florida International University di Miami, ha studiato le alterazioni dell’identità personale e della civiltà indotte dal viaggio [28] (sia quello reale, che quello metaforico che porta gli uomini a chiamare ‘trapasso’ la morte e ‘cammino’ la vita), cogliendo nell’esperienza della mobilità territoriale un modello di trasformazione culturale, temporale, psicologica. Tramite la metafora (dal greco metaphérein, ‘trasportare’) del viaggio, a suo parere, vengono espresse anche transizioni e modificazioni legate ai riti d’iniziazione e di passaggio, in cui il viaggio e l’idea del movimento rappresentano una fonte di riferimenti continui per spiegare aree di pensiero o di esperienza che ancora non sono familiari ai nuovi iniziati che vi entrano.
La nozione fondamentale di Leed è semplice: il viaggio è il paradigma dell’esperienza [29], poiché tramite il conosciuto (il già esperito) si tenta di acquisire l’ignoto, il che giustifica la grande dovizia di espressioni metaforiche [30] legate al movimento. Ecco che concepire l’esperienza come cimento, ha senso anche parlando degli effetti del viaggio sul viaggiatore: il viaggio genera e soddisfa un bisogno di mutamento, visto che la mobilità territoriale produce, appunto, dei cambiamenti sulla concezione dell’io, dell’altro e dei rapporti umani, ossia un cambiamento della percezione che il viaggiatore ha di sé e degli oggetti che lo circondano prima, dopo e durante il viaggio.
Molto interessante anche il discorso sulle tipologie di viaggio, che hanno subito un’evoluzione continua, che la letteratura dell’epoca di riferimento non ha mancato di rilevare. Tutto accade tra due miti fondanti: quello del ritorno (Ulisse) e quello della Terra Promessa [in mezzo sta la Letteratura].
Ecco il viaggio dell’antichità (Ulisse ne è il rappresentante per antonomasia), fatto di sacrificio, patimento, insidie e prove imposte dal fato, che si compie su un percorso circolare, in cui punto di partenza e punto di ritorno coincidono, e durante il quale si crea l’identità dell’eroe: tutto questo serve a spiegare il fato e il ruolo degli dèi nella vita degli uomini, nonché a ratificare quello dell’eroe nella società.
Altro tipo di viaggio emana direttamente dal peccato originale e dalla cacciata dall’Eden: la coppia originaria è costretta per imposizione superiore (una costante del viaggio antico) a viaggiare per espiare le proprie colpe; la sofferenza è catartica. Il pellegrinaggio può considerarsi allora proprio come un’istituzionalizzazione di questo primo esilio: in diverse religioni, in effetti, il viaggio effettuato in determinate condizioni e verso determinate mete purifica e riabilita l’uomo che lo compie dalle sue colpe.
Si deve invece al Medioevo l’introduzione del viaggio volontario e solitario intrapreso dal cavaliere – senza macchia e senza paura – che, per consolidare la sua gloria e le sue capacità di fronte alla società feudale, sente forte il richiamo dell’avventura. È un viaggiatore senza pace, che pur potendo godere del ritorno nel luogo di partenza e dei benefici ottenuti (un regno o una dama) compie ripetutamente partenze e ritorni.
L’evoluzione umanistica farà transitare il viaggio dapprima verso la scoperta geografica e poi verso la scienza e l’erudizione. Al Gran Tour aristocratico, caratterizzato dalla rinnovata fiducia nel viaggio come arricchimento, che dominerà per tutto il Seicento e il Settecento, farà seguito il viaggio moderno, che durante il periodo romantico, esasperando il concetto di ‘libertà’, arriverà fino all’esaltazione del vagabondaggio: il viaggiatore moderno intraprende un viaggio per distogliersi dai condizionamenti del suo ambiente e tentare di acquisire una nuova identità e una percezione diversa degli oggetti e della realtà [31].
Il Novecento, secolo di rapido progresso tecnologico e di indifferenza, produce infine un uomo senza identità, neo-nomade e rinnovato vagabondo: gli intellettuali, incapaci di riconoscersi in una siffatta civiltà vagheggiano la fuga verso luoghi lontani, selvaggi ed esotici, in cui esprimersi. Ecco che il viaggio si è trasformato in fuga, ma questo non potrà che evolvere in erranza, inquieto nomadismo, illusioni, mancanza di certezze.
Ma la ‘fine dei viaggi’ venne decretata dalla pubblicazione (1955) di 'Tristes Tropiques' [32], dell’antropologo francese Claude Lévy Strauss: lo sviluppo dei mezzi di trasporto, delle vie di comunicazione, dei media, del turismo di massa e dei tour organizzati aveva ormai definitivamente reso obsoleta la distinzione ‘viaggiatori/vacanzieri’ che lo scrittore Paul Bowles [33] aveva operato già nel 1910. Il sociologo Franco Ferrarotti, su questo tema: in questo mondo in cui tutti viaggiano è proprio il viaggio a eclissarsi, dato che ormai si viaggia con una fretta esponenziale, con la golosità di una bulimia indifferente ai contenuti, sorda alle situazioni, cieca di fronte alle differenze.
Tuttavia, anche se non si parte più alla ricerca della propria identità, il più banale dei viaggi continua a mantenere un effetto di deritualizzazione dell’esperienza personale, che può, al limite, intaccare i modi consueti dell’esperienza psichica e religiosa, provocarne un riorientamento profondo… il viaggio decongela l’identità, la rende mobile, itinerante, problematica [34]. E il filosofo Umberto Galimberti aggiunge:
Altro aspetto importante da considerare è la dimensione temporale legata al ciclo di vita e di consumo del viaggio: a determinati periodi di vita corrispondono determinati stili di vacanza e destinazioni. Per Anna Carr [36] (Department of Tourism, University of Otago, Nuova Zelanda), infatti, esiste una vera e propria ‘cultura turistica’ che si esprime in uno stile di vita vivace e non usuale (dimensione extra-ordinaria), che accomuna le persone in vacanza in una collettività (quella appunto dei turisti) e che costituisce la chiave della possibilità di stabilire cambiamenti di percezione rispetto alle prospettive abituali. Anche se non affronta – se non raramente – un puro viaggio di erranza, il turista si affaccia comunque sull’imprevedibile e si trova di fronte ai contenuti della diversità (temerla o apprezzarla dipenderà dalla sua formazione e dai suoi valori). Severa pertanto non può che essere la critica mossa dal saggista francese Roland Barthes, a proposito dell’oggetto-feticcio del turismo contemporaneo: la guida turistica [37], che a suo parere nascosto dalla ‘narrazione’, propone un modello del viaggio secondo schemi culturali prestabiliti, che di fatto plasmano la mente del turista, dirigendolo verso quel che c’è da vedere o da evitare, secondo i canoni che appiattiscono i viaggi, uniformandoli tra loro.
Insomma da tutto quanto ho cercato di esporre, si evince che ormai è necessario ragionare nei termini della nuova prospettiva del new mobilities paradigm, che trova una definizione compiuta nelle opere del sociologo britannico John Urry [38] (professore della Lancaster University) e che propone come chiave di lettura della società contemporanea il concetto di mobilità. La mobilità, come afferma Giovanna Mascheroni [39] dell’Università degli Studi di Bergamo,
Mascheroni individua nella sua ricerca la tipologia dei ‘viaggiatori indipendenti’ (backpackers, dall’inglese backpack, ‘zaino’ ) o ‘disorganizzati’, che, per dirla à la Bauman, non sono né moderni pellegrini né turisti post-moderni: costituiscono una popolazione molto particolare di giovani adulti, essendo protagonisti – da soli o in coppia – di lunghi viaggi (anzi, hanno praticamente conferito la connotazione di viaggio a tutte le componenti della loro vita, compreso il lavoro e le relazioni familiari), accomunati dalla flessibilità degli itinerari a destinazione multipla (continuamente rinegoziati on the road) e dal budget generalmente piuttosto limitato [40] (nonostante l’appartenenza socio-economica solitamente alla classe media o medio-alta), e che rifiutano in ogni modo l’etichetta di turisti, disprezzando le loro modalità. Si ritengono viaggiatori esperti, il che costituisce ai loro occhi un fattore di prestigio che conferisce status (road o sailing status). Il loro è un viaggio preferibilmente lento, potenzialmente senza fine, un viaggio-vita (che contiene, insieme l’esperienza del lontano e del continuamente altro), ma non d’evasione, non essendoci un altrove da cui evadere e a cui tornare. In quanto flussi mobili di travelling people, sono parte integrante dei paesaggi umani.
Laura Bovone, nella presentazione al libro della Mascheroni Le Comunità viaggianti, specifica che
Chiudo quindi questo discorso generale sul turismo, forzatamente riduttivo, riassumendone i punti salienti:
- turismo come pratica culturale in cui l’incontro con i luoghi visitati viene mediato dalla corporeità e depositato in vari supporti di memoria, (dalle fotografie ai veri e propri travelling objects);
- turismo come intreccio (sempre più de-esoticizzato) di mobilità fisiche, immaginative e virtuali;
- turismo come azione di dissolvenza dei confini;
- turismo come fattore di ibridazione e permeabilizzazione di spazi sociali;
- turismo come caduta della distinzione tra home e away (intesa come somiglianza crescente fra i comportamenti tipici della vita quotidiana e i comportamenti propri del viaggio).
Insomma, il paradigma della mobilità e il viaggio in tutte le sue forme (corporeo, virtuale o immaginativo) paiono davvero essere costitutivi della nostra società, infondo come aveva già preconizzato anche il pastore anglicano del Seicento, Robert Burton, quando scriveva:
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