L’importanza della narrazione come strumento per ‘pensare’ e rielaborare i vissuti
Elementi fondamentali nella dinamica dell’incontro (1) nella relazione (2) sono l'empatia e l'ascolto.(3) Empatizzare significa fare l’esperienza concreta di un Io che incontra un Tu, che è altro per lui e resta tale, perché non viene ‘fagocitato’, ma di cui ha consapevolezza del suo essere sempre un Io per se stesso. Tutto questo avviene nel perimetro dell’accoglienza e del rispetto, dell’accettazione di un altro da chi cerca di comprenderlo. Saper accogliere significa, in particolare, saper ascoltare (e saper dunque predisporre il silenzio per l’ascolto), ossia fare silenzio di sé per lasciar ‘parlare’, non solo con le parole, l’altro. È aprirsi ai suoi segni, ai suoi discorsi, alle sue narrazioni, il che permetterà di accedere a un mondo interiore, a una storia personale e cognitiva altrimenti assai difficile da avvicinare, per rinvernirvi significati rimossi o nascosti, eppure indici di sofferenza.
Faticoso nei tempi spesso troppo stressanti e concitati imposti dalle organizzazioni, dall’agire pratico o anche dalle complicazioni delle famiglie trovare il tempo quieto del pensare! Pensare a ciò che si fa (4) e pensare i pensieri, a partire dai quali si decide la qualità dell’agire, è fondamentale perché i vissuti lascino segno di sé, delineando trame utili al pensiero riflessivo, impegnato a costruire e decostruire mappe di senso. È solo nella sospensione del fare affaccendato, nel creare poieticamente – e salvaguardare – pause (l'otium degli antichi Romani, contrapposto al negotium), che si può provare a valorizzare il proprio vissuto nella sua concretezza, evitando di appendere il più privato flusso di idee a quello di chi si vuole o si deve gratificare.
Mettere in scena questioni impensate oppure antiche, ma indagate da un nuovo punto di osservazione partendo da sé, può allora porsi – come indica Michel Foucault – come modo di rendere visibile ciò che è visibile ma non viene percepito, essendo troppo vicino ed immediato, troppo evidente alla coscienza, troppo presente nell’esperienza ordinaria.
È nel raccontare la storia di sé – il bisogno della vita di dirsi – che si apprende chi si è, si scoprono snodi problematici, incertezze che erano passate quasi inosservate, dubbi che richiedevano soluzioni invece di essere accantonati. Ovviamente l’intervento problematizzante dello sguardo dell’interlocutore richiede competenze comunicative, oltre a attenzione, delicatezza e etica del rispetto, escludendo qualsiasi giudizio di valore a riguardo.
Faticoso nei tempi spesso troppo stressanti e concitati imposti dalle organizzazioni, dall’agire pratico o anche dalle complicazioni delle famiglie trovare il tempo quieto del pensare! Pensare a ciò che si fa (4) e pensare i pensieri, a partire dai quali si decide la qualità dell’agire, è fondamentale perché i vissuti lascino segno di sé, delineando trame utili al pensiero riflessivo, impegnato a costruire e decostruire mappe di senso. È solo nella sospensione del fare affaccendato, nel creare poieticamente – e salvaguardare – pause (l'otium degli antichi Romani, contrapposto al negotium), che si può provare a valorizzare il proprio vissuto nella sua concretezza, evitando di appendere il più privato flusso di idee a quello di chi si vuole o si deve gratificare.
Mettere in scena questioni impensate oppure antiche, ma indagate da un nuovo punto di osservazione partendo da sé, può allora porsi – come indica Michel Foucault – come modo di rendere visibile ciò che è visibile ma non viene percepito, essendo troppo vicino ed immediato, troppo evidente alla coscienza, troppo presente nell’esperienza ordinaria.
È nel raccontare la storia di sé – il bisogno della vita di dirsi – che si apprende chi si è, si scoprono snodi problematici, incertezze che erano passate quasi inosservate, dubbi che richiedevano soluzioni invece di essere accantonati. Ovviamente l’intervento problematizzante dello sguardo dell’interlocutore richiede competenze comunicative, oltre a attenzione, delicatezza e etica del rispetto, escludendo qualsiasi giudizio di valore a riguardo.
A rendere essenziale il confronto intersoggettivo è anche la tendenza, piuttosto diffusa, ad assumere come veri solo quei dati che si accordano con i nostri pensieri. Tendiamo infatti ad accreditare ciò che sta in relazione con i nostri desideri e con fatica accogliamo ipotesi e interpretazioni che vanno in una direzione differente. Anche le riflessioni più raffinate hanno poca efficacia quando si rimane preda di queste tendenze narcisistiche, che solo il confronto continuo e onesto con altri può indebolire. (L. Mortari, 2003)
Perché questo guardarsi dentro, questo narrarsi, abbia un esito autorischiarante, positivo, liberatorio e costruttivo (5) occorre attivarsi nell’invenzione di nuovi scenari esperenziali ed elaborarli sempre come cosa in divenire, in progress, mai cristallizzata e definitiva. (6) Pensare insomma con una modalità kantianamente più larga, per educare il proprio pensiero a ‘recarsi in visita’ in altre terre del pensiero. (Platone, Apologia di Socrate)
Quando le persone entrano nelle organizzazioni, non sono tabulae rase, ma portano con sé ciò che sono diventate attraverso il loro vivere e abitare altri contesti: essere riflessivi allora significa non solo indagare le relazioni instaurate e le implicazioni pratiche ed emotive che ne discendono, ma anche come il loro paesaggio simbolico interagisce con quel determinato ambiente, modificandosi e quindi modificandolo a sua volta. Insistere nel domandare e poi sostare nelle domande, per non subire passivamente, per non violentarsi inconsapevolmente. Aver cura di sé insomma, che è prestare attenzione a se stessi per individuare i percorsi di soggettivazione dell’esistenza attraverso cui si anima la propria originale e unica presenza nel mondo: già Socrate avvertiva Alcibiade della priorità di questo principio, spiegandogli che a nulla ci si può dedicare con efficacia se prima non ci si pone come obiettivo la disciplina dell’aver cura di sé.
Impegnati in questo domandare, raccontare (action storytelling), interrogarsi, anche nell’ostinazione dei silenzi che dicono più di molte parole, gli ‘abitanti’ delle organizzazioni inevitabilmente si accorgeranno di non essere soli, di essere tra molti, accomunati dall’esigenza di fare e disfare se non proprio la tela delle loro storie lavorative (pesanti o fortunate, fatte di attese o offese che siano), il proprio telos.
Narrare – soprattutto le cose che fanno male – è insostituibile terapia, salvaguardia di continuità, sottolinea Quaglino, fa vincere l’inerzia delle difese, delle distorsioni e delle collusioni sia dei protagonisti che delle comparse, è confine e contenitore ultimo, in assenza di altri argini, al di là delle riunioni interminabili, delle agende con impegni costantemente procrastinati, delle aritmie delle dead-lines fissate, delle urgenze mai placate, dei garbugli burocratici invincibili.
Il fluire dei racconti può rintracciare ed esaminare frammenti di discorsi, trascinare con sé gli eventi, interpretare e conservare fondamentali momenti di storia organizzativa, che, essendo creata da uomini, non è immodificabile, ma può cambiare.
Quando le persone entrano nelle organizzazioni, non sono tabulae rase, ma portano con sé ciò che sono diventate attraverso il loro vivere e abitare altri contesti: essere riflessivi allora significa non solo indagare le relazioni instaurate e le implicazioni pratiche ed emotive che ne discendono, ma anche come il loro paesaggio simbolico interagisce con quel determinato ambiente, modificandosi e quindi modificandolo a sua volta. Insistere nel domandare e poi sostare nelle domande, per non subire passivamente, per non violentarsi inconsapevolmente. Aver cura di sé insomma, che è prestare attenzione a se stessi per individuare i percorsi di soggettivazione dell’esistenza attraverso cui si anima la propria originale e unica presenza nel mondo: già Socrate avvertiva Alcibiade della priorità di questo principio, spiegandogli che a nulla ci si può dedicare con efficacia se prima non ci si pone come obiettivo la disciplina dell’aver cura di sé.
Impegnati in questo domandare, raccontare (action storytelling), interrogarsi, anche nell’ostinazione dei silenzi che dicono più di molte parole, gli ‘abitanti’ delle organizzazioni inevitabilmente si accorgeranno di non essere soli, di essere tra molti, accomunati dall’esigenza di fare e disfare se non proprio la tela delle loro storie lavorative (pesanti o fortunate, fatte di attese o offese che siano), il proprio telos.
Narrare – soprattutto le cose che fanno male – è insostituibile terapia, salvaguardia di continuità, sottolinea Quaglino, fa vincere l’inerzia delle difese, delle distorsioni e delle collusioni sia dei protagonisti che delle comparse, è confine e contenitore ultimo, in assenza di altri argini, al di là delle riunioni interminabili, delle agende con impegni costantemente procrastinati, delle aritmie delle dead-lines fissate, delle urgenze mai placate, dei garbugli burocratici invincibili.
Il fluire dei racconti può rintracciare ed esaminare frammenti di discorsi, trascinare con sé gli eventi, interpretare e conservare fondamentali momenti di storia organizzativa, che, essendo creata da uomini, non è immodificabile, ma può cambiare.
È solo l’illusione dei nostri deboli sensi che ci costringe a voltare le pagine del libro a una a una, illudendoci con questo che esse non siano legate in un volume indissolubile. (G. Leone)
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