Il pellegrinaggio (dal latino 'peregrinatio': viaggio in terra straniera) è una pratica devozionale che consiste nel recarsi collettivamente o individualmente in un santuario, o in un luogo comunque sacro, e qui compiere speciali atti di religione, sia a scopo di pietà, sia a scopo votivo o penitenziale [2]. Naturalmente è possibile ritrovare questa pratica (che ha rivestito nelle varie epoche espressioni culturali diverse) in tutte le religioni, perché propriamente umano è il desiderare di entrare in contatto con il genius loci, dove il Sacro ha posto la sua dimora, visitando quei luoghi santificati da una presenza divina o dalle reliquie di un defunto insigne, santo o eroe, da cui irradia, potremmo dire in modo più immediato, una virtù soprannaturale.
Nel pellegrinaggio vengono coinvolte tutte le facoltà degli individui che vi partecipano: la vista, l’udito, le emozioni, la gestualità; anche il vincolo collettivo viene esaltato dal percorrere ‘insieme’ lo stesso itinerario, dal compiere ‘insieme’ i medesimi atti rituali, orientando le menti verso un’unica idea religiosa. L’incontrarsi di genti diverse, spesso in numero davvero imponente, giova anche all’imposizione di un senso speciale di unità, che scavalca le differenze sociali ed economiche, andando oltre qualunque barriera. Forse anche per questo il ricordo si perpetuerà forte ed indelebile ed intense rimarranno le memorie connesse a quei momenti di potente emozione.
L’uomo è, per suo statuto ontologico, ‘pellegrino’: rivelando la sua identità primordiale di essere itinerante, in movimento verso un ‘centro’, testimonia il suo essere in ricerca, talvolta drammatica, di se stesso e dell’altro (di cui avverte malinconicamente l’assenza), della sua origine, del suo fine (Inquietum est cor nostrum donec requiescat in te [3]), del senso ultimo della sua vita, che sta oltre il velo dell’ineluttabile morte. Così l’uomo ha l’opportunità di acquisire qualità, perfezionare le sue potenzialità, guardare dentro il suo misterioso Sé, prendere coscienza della sua insopprimibile necessità di mobilità e della sua duplice esigenza di un’elaborazione culturale e di spiritualità. E tutto ciò può accadere proprio mentre è ‘in cammino’, dato che la strada rappresenta il luogo metaforico della conoscenza e della rivelazione, dell’esperienza e della comunicazione, della condivisione e della riflessione più intima e solitaria. Nell’antico Egitto il geroglifico che simboleggiava il vocabolo ‘vita’ era la croce ansata; rappresentava uno specchio di rame splendente di luce rubata, ma anche il laccio di un sandalo visto dall’alto: essere vivi significava allora, come nel terzo millennio, esser pronti a vedere e a camminare.
La sete degli uomini d’oggi, spesso confusi e soli, così inquieti e frastornati dall’eccedere dei segnali e delle tentazioni, non può placarsi semplicemente in un girovagare nell’arcipelago delle filosofie (M. Cacciari): occorre raggiungere la meta in una terra ‘aspaziale’ e ‘atemporale’, nel tempio sacro, nel tempo sacro. Uscire da sé, dislocarsi, in risposta a una chiamata; percorrere la vita nel divenire, nel farsi persona. La buona ‘riuscita’ di un pellegrinaggio sottolinea che il pellegrino ‘esce ancora una volta da’ un’esperienza forte, rinnovato interiormente, rincuorato dalla speranza e deciso a vivere la sua vita il più possibile sugli orizzonti che l’incontro con il suo Dio gli ha concesso di intuire.
Piersandro Vanzan [4] ha elaborato un sintetico elenco dei punti di vista da cui si può osservare, e quindi descrivere, un pellegrinaggio nella tradizione cristiana:
- etimologicamente, il ‘trovarsi per agros’ (in campagna, fuori dalla città) sottintende un ‘essere in via’, fuori dai tempi, dai luoghi, dai modi della vita quotidiana, un evadere dall’ordinario, assai spesso monotono;
- antropologicamente, invece, rappresenta un simbolo della condizione itinerante propria dell’umanità. Ecco l’Homo viator (a qualunque credo egli appartenga) che si mette in cammino mosso dal bisogno archetipico di tornare al suo Dio per realizzarsi;
- storicamente, il Cristianesimo diede particolare risalto all’invito a pellegrinare, dal IV secolo in poi, eleggendo Gerusalemme, altri luoghi evangelici e tombe di martiri e santi (a Roma soprattutto) a mete privilegiate. Queste ultime, dal X al XVI sec., invece saranno costituite dai grandi santuari (S. Giacomo di Compostella, Mont Saint Michel, Canterbury, Colonia...), mentre con l’800 ed il ‘900 saranno preferiti i luoghi delle apparizioni mariane (Lourdes, Loreto, Fatima, Pompei, Banneaux, Caravaggio...);
- biblicamente, gli Ebrei furono il popolo peregrinante per antonomasia: la natura ‘errante[5]’ di Israele è ben sottolineata nell’Esodo, un cammino più verso Dio che non verso una meta. Questo ‘andare oltre’, all’incessante ricerca della Terra Promessa escatologica, è in realtà un tendere all’Essere e non all’Avere, un tendere cioè instancabilmente alla realtà ultima (la Gerusalemme celeste), attraversando man mano realtà penultime (‘tappe’ dunque e non ‘mete’) intermedie;
- teologicamente parlando, occorre invece porre l’attenzione su due dati di non facile coniugazione: il santuario, statico (mentre il pellegrinaggio è dinamico), è la ‘tappa’ (non dunque la meta) intermedia, che dà consistenza all’atto del pellegrinare, che altrimenti rischierebbe di proporsi solo come un girovagare senza riferimento alcuno alla storia della Salvezza. Ecco che si ‘esce da’ per ‘andare oltre’, spiritualizzando la propria azione, che non può restare rinchiusa nei ristretti limiti di un viaggio geografico-turistico, ma che deve bensì aprirsi all’esperienza arricchente di una diaconia di catechesi, di liturgia e di carità.
Il pellegrinaggio deve perciò davvero essere un momento di revisione della propria vita, di ricerca di una risposta a bisogni umani impellenti e non differibili, di una spiegazione altra rispetto alla scienza ed alla razionalità, dei grandi, immensi bisogni dell’uomo, di ogni uomo assetato del misterioso e del divino [6], uno strumento prezioso non solo per una catarsi, ma anche per rivivificare la fede.
Se queste considerazioni nascono da un pensiero religioso cristiano, non sono tuttavia estranee ad altre culture. In Arabia Saudita, per esempio, lo hajj, ossia il pellegrinaggio a La Mecca, che è uno dei cinque pilastri della fede islamica, ha addirittura reso necessaria l’istituzione di un Ministero del Pellegrinaggio: esso, insieme ad altri enti governativi, che sono impegnati in progetti nazionali e internazionali per la promozione del ruolo dell’Islam nella comunità mondiale, sovrintende a un gravoso coordinamento logistico-organizzativo, visto l’enorme numero di pellegrini coinvolti.
Difficile decidere allora se, come affermava Thomas Luckmann [7], le domande di senso dell’uomo appaiono sempre più soggettive e meno legate alla socializzazione, oppure il contrario. Gli antropologi culturali e i sociologi della religione, che studiano da tempo il fenomeno sociale ‘pellegrinaggio’, per la sua unicità e singolarità di evento di mobilità collettiva a matrice religiosa, ne hanno fatto emergere alcuni aspetti ricorrenti ed emblematici, utili per consentire di delineare, se non vere e proprie teorie, almeno griglie interpretative.
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