La fotografia come arte e mezzo di comunicazione
L'uomo sa analizzare la sua stessa esistenza all'interno della situazione in cui si ritrova a vivere.
Dunque guarda, osserva, riflette, rielabora: non solo vede ciò che ha attorno. Parafrasando Roland Barthes, si potrebbe infatti dire che 'vedere' è un fenomeno fisiologico, in cui si esercita una facoltà sensoriale verso degli indizi, mentre 'guardare' si pone piuttosto come un atto psicologico, una decifrazione di segni e di codici.
Gli uomini insomma si emozionano e talvolta alcuni di loro sentono l'esigenza di tradurre in immagini, suoni, poesie, dipinti o sculture ciò che sentono.
Dunque guarda, osserva, riflette, rielabora: non solo vede ciò che ha attorno. Parafrasando Roland Barthes, si potrebbe infatti dire che 'vedere' è un fenomeno fisiologico, in cui si esercita una facoltà sensoriale verso degli indizi, mentre 'guardare' si pone piuttosto come un atto psicologico, una decifrazione di segni e di codici.
Gli uomini insomma si emozionano e talvolta alcuni di loro sentono l'esigenza di tradurre in immagini, suoni, poesie, dipinti o sculture ciò che sentono.
Io non sono – purtroppo per me – un'artista nel senso letterale della parola, né tanto meno potrei definirmi una fotografa professionista: tuttavia ho avuto spesso l'opportunità per motivi di lavoro e viaggiando di 'guardare' (alla Barthes appunto) il mondo e i miei simili attraverso gli occhi magici degli obiettivi fotografici e quindi di essere forse più attenta a percepire e ad accogliere gli stimoli 'fuori' da me comunque mi si rivelassero.
Mi sono sempre adoperata per andare oltre la semplice documentazione fotografica, nel tentativo di impressionare la pellicola (ebbene sì sono un'inguaribile nostalgica) con il mio stupore, il mio incantamento, i miei stordimenti, il mio depaysement, le mie stesse sensazioni, per portarmele a casa e poterle di conseguenza ri-vedere, con-dividere e ri-vivere più volte. Per intensificare in fondo ancora di più le mie esperienze, perché una foto ha in sé il pregio di annullare il tempo e la distanza.
Le pellicole (rimembranza storica di quando si stampava in bianco & nero in casa), le diapositive e i file digitali che affollano i miei archivi non sono altro, dunque, se non le mie 'visioni', i miei tentativi di trasformare certe realtà 'sentite' in realtà 'viste' davvero. Restano istanti congelati in inquadrature, tumulti dei neuriti del mio cuore, ricordi custoditi dai neuroni nella mia mente. E a questo proposito mi viene immediato constatare quanto sia strana l'etimologia del verbo 'ricordare', come se fosse il cuore la sede della memoria e le emozioni venissero immagazzinate nel sangue.
Fotografare non è il mio mestiere, ma solo uno tra i miei variegati piaceri; una mia personalissima interpretazione dell'attimo che comprende di volta in volta modulazioni di luce e colore, indiscutibile bellezza, sguardi significanti, abbracci espressivi, impercettibili dolori, sorrisi affioranti o esili allusioni.
Sociologia visiva
'La nostra è un’epoca visiva in cui le immagini sembrano sempre più soppiantare la parola scritta': così si esprimeva già nel 1982 l’insigne critico e storico dell’arte Ernest Gombrich.
L’idea delle immagini come 'testimonianze oculari' dei fenomeni sociali, ripresa da lui – che per la prima volta parlò del 'principio del testimone oculare' –, va fatta risalire niente meno che agli antichi Greci, che già ritenevano che un artista si attenesse nient’altro che alla rappresentazione di ciò che avrebbe potuto vedere un testimone oculare da un punto di osservazione particolare in un momento altrettanto specifico. A quel tempo l’importante era infatti rappresentare (in senso teatrale) avvenimenti mitologici o reali, senza preoccuparsi di trasmettere informazioni su cose di cui non si avesse già conoscenza.
Fin dai primordi della storia dell’umanità, le immagini, di qualsiasi natura, hanno rappresentato uno dei principali strumenti di intermediazione tra l’uomo, i suoi sensi, la sua coscienza e la realtà che lo circonda. Si utilizzano le immagini per conoscere il mondo e la conoscenza si fonda, in gran parte, su ciò che è dato di vedere: nella cultura visiva occidentale pertanto vedere è sapere, è possedere la realtà. Nella società dell’apparenza, addirittura, l’immagine è a volte persino più credibile del reale.
Premesso questo dunque, agli inizi del terzo millennio, come sarebbe possibile non ritenere una vera e propria omissione il non avvalersi dello strumento 'immagini' come documento iconico quale fonte per studiare le diverse interazioni che coinvolgono i membri di una società come quella contemporanea, in cui l’utilizzo delle immagini costituisce sicuramente uno dei linguaggi più diffusi?
George Simmel già nell’Ottocento teorizzava che l’occhio – tra i cinque sensi – è l’unico ad avere una funzione sociologica e nell’era del 'visivo', che trova nel ruolo della vista e della comunicazione visuale uno dei suoi elementi fondanti e la principale modalità con cui gli individui e le istituzioni si scambiano informazioni su di sé, sulle proprie identità, sui propri vissuti e sulla propria cultura, la Sociologia visuale acquisisce dignità di essere parte integrante della Sociologia, a sua volta da tempo chiamata ad essere più ‘visuale’. Con la dizione Sociologia visuale si intende allora quella metodologia che, caratterizzandosi per l’uso di immagini nella ricerca (disegni, fotografie – testo iconico che riguarda sia la comunicazione sia l’informazione – e immagini registrate con i moderni mezzi audiovisivi), ha maturato la consapevolezza che il ruolo della vista e della comunicazione visiva hanno conquistato nella società nello scambio di informazioni tra gli individui e le istituzioni, circa i propri valori e i propri mondi culturali.
Le immagini – come ritiene Mattioli – sono infatti in grado, tenuto conto della creatività e della soggettività, di 'restituire' la realtà sociale, come testimonianze figurative che comunicano velocemente e chiaramente i dettagli di processi sociali complessi, che un testo descriverebbe in maniera assai più lenta, meno immediata e forse anche più vaga.
Se un approccio alla ricerca basato unicamente sulle immagini non è possibile, si impone tuttavia una combinazione di immagini e linguaggio, con immagini inserite 'nel' processo di ricerca e non come un metodo autonomo di ricerca.
verbale & visivo
L’uomo rappresenta la sola specie animale capace di guardarsi e di analizzare la sua stessa esistenza all’interno della situazione in cui si ritrova a vivere.
Dunque guarda, osserva, riflette, rielabora: non solo 'vede' ciò che ha attorno. Parafrasando Roland Barthes, si potrebbe infatti dire che 'vedere' è un fenomeno fisiologico, in cui si esercita una facoltà sensoriale verso degli ‘indizi’, mentre 'guardare' si pone piuttosto come un atto psicologico, una decifrazione di segni e di codici.
Il grande scienziato arabo Al-hazen (965/1038), distingueva tre tipi di visione, ritenendo che si può vedere con il solo senso esterno, ossia senza nessuna virtù dell’anima e con l’intuito del senso, oppure secondo un modo universale di conoscenza visiva, ossia per scienza, mediante l’attività della memoria e dell’immaginazione, o infine tramite sillogismo per ragionamento, in cui oltre alla presenza dell’oggetto esterno e della memoria visiva del medesimo occorre soprattutto l’attività 'cogitativa', che procede argomentando.
Al di là di queste interessanti teorizzazioni, va ricordato anche che il vocabolo inglese graphics rinvia all’antico graphéin: lo scrivere e il disegnare insieme, ‘modus’ che fino al XVII secolo aveva ricoperto un ruolo fondamentale nella nostra cultura, venendo poi soppiantato dalla verbalità, ritenuta più idonea ai grandi sistemi filosofici e scientifici in costruzione. Nulla di più illusorio, dato che oggi la cosiddetta “civiltà delle immagini” ben dimostra l’efficacia di un testo/logo che al contempo è una compenetrazione di grafia e disegno, spesso parola che essa stessa si fa immagine, atta a illustrare evocando e sottendendo significati.
“Verbale” e “visivo” sono pertanto i due modelli di pensiero che, trasfondendosi l’uno nell’altro, generano conoscenza e comunicazione, ossia il risultato di un qualunque comportamento di un organismo che costituisce uno stimolo per un altro organismo.
Nei trattati di psicologia, la teoria dell’informazione di Shannon e Weaver prevede che si parli di comunicazione in presenza essenzialmente di tre elementi: un’origine della comunicazione, un canale e una destinazione della comunicazione. In tutto questo percorso l’origine deve procedere ad una prima codifica del messaggio, avvalendosi di tre diversi codici: uno semantico, relativo ai significati da trasmettere, uno fonologico, relativo ai suoni che dovrà articolare ed uno sintattico, relativo all’ordine con cui questi suoni vanno emessi. Il linguaggio verbale tuttavia non è che una delle molteplici forme di comunicazione che l’uomo usa per relazionarsi con gli altri.
Senza addentrarsi nelle complesse argomentazioni della psicolinguistica, della fonetica o della comunicazione non verbale, basta dire che il linguaggio è la facoltà di esprimere pensieri e sentimenti non solo per mezzo di suoni articolati, ma anche di gesti, segni, simboli.
Ecco che la 'visualizzazione' del vedere si fa tangibile, lasciando emergere di volta in volta la sua natura riflessiva, mentale, ideale. Ecco che il segno (gr. 'semeion', lat. 'signum'), che è insieme gesto, traccia e linea, si fa espressivo, estetico e simbolico. Ecco che la linea che 's-corre' sul fondo non tanto segna la materia, ma bensì lo spazio dello sfondo. Ecco che il simbolo, che è prodotto dal suo stesso interprete, si caratterizza per la sua funzione psicologica e culturale. E che dalla “mano libera”, primordiale mezzo di produzione dei segni, si arriva all’uso di “strumenti-esecutori” informatici ormai raffinatissimi, in cui la mano serve pur tuttavia ancora, anche se solamente per inviare gli input che il computer trasformerà magicamente in segno visibile.
Partendo dalle diverse riflessioni sul nucleo centrale costituito dal rapporto tra lo sguardo e la visione, si arriva dunque ad approfondire il ruolo dell’immagine nel processo di conoscenza del mondo per procedere attraversando ambiti differenti della Sociologia visuale, che trova appunto nell’immagine il proprio punto di forza per l’analisi del vissuto, dell’esperienza e della costruzione del senso soggettivo, alla ricerca di strumenti euristici e comunicativi sempre più efficaci che possano penetrare la realtà del sociale.
ricercare “con” o “sulle” immagini?
Il sociologo americano John Grady ha fornito un acuto tentativo di sistematizzazione della Sociologia visuale, appuntando l’attenzione essenzialmente su tre aspetti:
seeing, ossia l’analisi del ruolo della vista e dello sguardo nella conoscenza e nel processo di costruzione dei significati e dell’organizzazione sociale. La percezione visiva del resto è da tempo stata riconosciuta quale elemento chiave dell’apprendimento e dello sviluppo degli individui;
communicating with icons, ossia il comunicare con le immagini (istituzionalmente organizzate o facenti parte della cultura popolare e dei modi non intenzionali in cui nella vita quotidiana le persone comunicano visivamente tra loro – la 'home mode communication' secondo Chalfen, autore di un saggio a riguardo) per la gestione delle relazioni sociali nella società;
doing sociology visually, il “fare sociologia visualmente”, ossia di quali tecniche di produzione e decodifica dei messaggi (più o meno intenzionali che siano) ci si può avvalere per un’investigazione empirica dell’organizzazione sociale, tenendo conto sia del significato culturale che dei processi psicologici coinvolti.
Grady suddivide poi il doing sociology visually in sei sottoaree raggruppabili essenzialmente in due macrogruppi di analisi, collocabili rispettivamente nell’area della ricerca (la sociologia con le immagini prodotte e create ad hoc dal sociologo per gli scopi della ricerca da condurre) e in quella dell’interpretazione (la sociologia sulle immagini già esistenti nel mondo *).
Si parla quindi di:
› visualizzazione: grafici, diagrammi, mappe, tabelle e modelli vari per rappresentare concetti e/o organizzare informazioni,
› ricerca, sia essa ricerca fotografica sul campo o intervista con foto-stimolo o ancora produzione soggettiva di immagini di chiara derivazione antropologica su appartenenti a diverse culture per comprendere il loro modo di vedere le cose (in questo ambito insomma le immagini sono considerate veri e propri testi per l’analisi dei comportamenti o come strumenti atti a raccogliere informazioni),
› produzione concreta – tramite foto o video camera – per presentare i risultati della ricerca sottoforma di una sorta di “saggio sociologico visuale”,
› interpretazione * dei significati simbolici delle immagini prodotte durante un’attività sociale,
› spiegazione *, ossia l’identificazione dei significati simbolici delle immagini prodotte per raccontare una storia,
› insegnamento, dati i vantaggi che l’uso delle immagini può certamente portare nell’apprendimento dei concetti sociologici.
L’attenzione alle dimensioni visuali del mondo sociale è ormai sempre più al centro del dibattito degli scienziati sociali, che ritengono proficuo far entrare l’immagine nel processo di conoscenza della realtà sociale.
La Sociologia visuale dunque è un ambito potenzialmente ricchissimo di studio aperto sia a chi voglia usare le immagini come strumento di raccolta delle informazioni nel corso del processo di ricerca sul campo, (come si è detto: la sociologia con le immagini), sia a chi voglia utilizzarle come dati, per interpretare i prodotti culturali visuali che già esistono nel mondo sociale e con i quali gli attori e i gruppi sociali comunicano fra loro e con le istituzioni (la sociologia sulle immagini), sia infine a chi voglia produrre video sociologici per la didattica o per la restituzione dei risultati delle ricerche.
indici, icone, simboli
Anche se comunemente di tende a considerare ‘neutre’ le tecnologie tramite le quali i media registrano i dati, non va commesso l’errore di dimenticare che fotografie, video, film sono direttamente soggetti all’influenza sociale e culturale, oltre che al contesto storico della loro produzione e consumo.
Una fotografia, per esempio, si riferisce a un determinato e preciso istante selezionato dall’autore nel corso del fluire del tempo, inquadrando uno spazio che è stato altrettanto precisamente delimitato, ma le cui coordinate non vengono ovviamente registrate. Se è vero che dati, narrazioni, documentazioni possono, in parte, rendere conto di quando, dove, come e chi ha realizzato la fotografia, va detto che tali informazioni devono comunque sempre essere fornite a parte, aggiunte in didascalie scritte. Estrapolata dal suo contesto storico-geografico-sociale e separata da queste informazioni la fotografia si rende pertanto disponibile ad essere letta come icona o simbolo e quindi perde il suo valore di indice. Invece, accompagnata da un’altra didascalia che indirizza l’attenzione dell’osservatore su alcuni particolari, inserita in una serie di altre immagini, oppure commentata da un brano sonoro, la stessa immagine fotografica assume significati completamente diversi da quelli che le erano stati originariamente attribuiti.
Per chiarire meglio questi concetti, Paolo Parmeggiani, docente e ricercatore presso l’Università degli Studi di Udine, richiama la categorizzazione di Charles Sanders Peirce, che prevede tre tipi fondamentali di segno in rapporto all’oggetto:
gli indici, segni che testimoniano l’esistenza di un oggetto, con il quale hanno un intimo legame di implicazione, senza tuttavia descriverlo; indizi insomma, come il classico mozzicone di sigaretta nel portacenere, che dice che nella stanza c’è stato qualcuno, ma in genere, a parte le deduzioni dei detectives, non dice nulla su come questa persona sia;
le icone, segni che riproducono alcune qualità dell’oggetto, immagini mentali, dipinti, diagrammi che hanno la stessa forma della relazione rappresentata, metafore;
i simboli, segni convenzionali, e che perciò stanno per qualcosa d’altro in base a una corrispondenza codificata in base a una “legge”. Non dicono nulla dell’esistenza, né delle qualità dell’oggetto: semplicemente lo designano sulla base di una norma.
La fotografia può contenere in sé tutti questi tre tipi di segno ed è per questo che è possibile, nella decodifica di una immagine, identificare l’aspetto della sua relazione con fatti reali (la foto come prova, per es. di una persona che era presente in un determinato luogo), oppure la foto come copia visiva (ad es. la fototessera come riproduzione delle fattezze fisiche), o infine come simbolo (ad es. una donna che sorride come personificazione della Bellezza). Questi aspetti non si escludono reciprocamente, ma anzi si sovrappongono: la stessa fotografia può essere letta secondo differenti punti di vista. Ecco che la caratteristica fondamentale della fotografia risulta quindi essere non tanto la rassomiglianza tra immagine e referente, ma il messaggio che attesta la presenza del referente. E un sociologo visuale non può prescindere da queste valutazioni nelle sue analisi.
Creare un’immagine significa dunque stabilire immediatamente un complesso processo di interazione tra autore (mosso dai più diversi intenti specifici individuali, mediati da influenze sociali, culturali, estetiche, da esperienze e motivazioni personali) e fruitore di quell’immagine (che a sua volta interviene nell’interazione con le sue motivazioni personali, che lo spingono a fare uso di quelle immagini e a percepirle, selezionarle e interpretarle secondo determinati criteri e aspettative), con la mediazione di un contesto che si esprime sia in termini storico-temporali, sia in termini situazionali, sia rispetto agli intenti degli attori.
Il rapporto tra arte fotografica e scienze sociali è diventato nel tempo sempre più stretto: se la fotografia si è confermata supporto indispensabile per la ricerca antropologica, da trent’anni a questa parte si va consolidando – negli Stati Uniti prima e in Europa poi – quel filone di studio e di indagine che va sotto il nome di Sociologia visuale. In questo approccio la fotografia non è più considerata per la sua valenza estetica, ma diviene vero e proprio strumento di indagine empirica, sguardo che scava nella realtà sociale contribuendo spesso a metterne a nudo le contraddizioni, con una evidenza sicuramente più immediata e coinvolgente di quanto possa fare un testo scritto. Come ricorda Berger: 'Il vedere viene prima delle parole'.
Certo, lo sguardo di un fotografo – ma anche lo sguardo dell’osservatore – è sempre soggettivo e il prodotto fotografico è essenzialmente culturale. Oggi però anche la scienza interpreta il mondo a partire da un ‘punto di vista’ e l’unica possibile garanzia di oggettività consiste nell’esplicitazione di questo punto di vista, sia in senso metodologico che concettuale.
Per concludere: per “fare sociologia visualmente” non va mai dimenticato di sapere in quale contesto ci si sta muovendo - perché è da questo che si trarranno le auspicate informazioni ricercate - e che il pensare teorico influenzerà comunque il momento in cui si andrà ad inquadrare la realtà da studiare.
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collaborazioni fotografiche professionali:
[2006] servizio fotografico pubblicato sul numero monografico 'Rehabilitation di MS in focus' - issue 7 (MSinFocusIssue7EN1 1.pdf), pubblicazione semestrale della Multiple Sclerosis International Federation.
[1997 -2006] servizi fotografici per l’Associazione Italiana Sclerosi Multipla (AISM), avente la Sede Nazionale in Genova. Dal gennaio 1998 al giugno 2000 inoltre una parte della collaborazione è stata rivolta alla realizzazione della comunicazione con i media per il Progetto Horizon, relativo alla disabilità motoria & lavoro.
[1989-1997] collaborazione giornalistica finalizzata a 'Charitas', mensile dell'UNITALSI Sezione Lombarda, oltre che alle varie pubblicazioni associative (libri, guide, serie di cartoline, calendari, pieghevoli, brochure...)