I nottambuli (che godrebbero della cosiddetta 'forza notturna'), poiché hanno scelto di non adattarsi agli schemi e di cambiare i normali ritmi sonno-veglia, dimostrano una intelligenza più creativa e innovativa dal punto di vista evolutivo.
Gli scienziati sostengono che le persone di media intelligenza sono più propense a seguire il ritmo del sole, mentre la maggior parte delle persone con intelligenza superiore ha il desiderio di sfidare questo ritmo, creandone uno proprio. E sempre secondo i ricercatori questo desiderio di sfidare il ritmo comune avviene inconsciamente e per la necessità di distinguersi dai normali, per evitare di seguire la corrente.
I nottambuli, in definitiva, sono degli innovatori. Senza di loro, saremo tutti uguali e non ci sarebbe evoluzione.
Questa tesi è stata dimostrata da almeno vari studi universitari, di cui uno italiano.
1. Satoshi Kanazawa, scienziato evoluzionista presso la London School of Economics and Political Science, ha individuato un legame fra l’intelligenza e i comportamenti adattivi “innovativi dal punto di vista dell’evoluzione”, cioè che deviano da quelli dei nostri antenati. Le attività notturne abitudinarie erano probabilmente rare nell’ambiente ancestrale, e risultano innovative dal punto di vista dell’evoluzione. La ricerca conclude: i bambini più intelligenti sono più inclini, crescendo, a diventare degli adulti nottambuli, che vanno a letto tardi e si svegliano tardi sia nel corso della settimana che nei weekend. In sostanza, maggiore è il valore del QI, probabilmente maggiore sarà anche l’attività nelle ore notturne. Di conseguenza il QI è più alto in quelle persone che vanno a dormire a tarda ora.
Per correttezza, purtroppo va aggiunto anche che, da un secondo test, è emerso che i soggetti insonni oltre ad essere più intelligenti, sono anche quelli maggiormente interessati da incubi.
2. I ricercatori dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano hanno rilevato che rispetto ai mattinieri i nottambuli sono più inclini a sviluppare soluzioni originali e creative ai problemi. Marina Giampietro, autrice della ricerca, ipotizza che la ragione di quella potenziale maggiore creatività nei nottambuli stia nel fatto che restare in piedi fino a tardi può stimolare lo sviluppo di uno spirito non-convenzionale, oltre che della capacità di individuare soluzioni alternative e originali.
3. I ricercatori dell’Università di Madrid hanno diffuso una ricerca basata sull’analisi dei ritmi del sonno di circa un migliaio d’adolescenti. Secondo lo studio, i nottambuli ottenevano risultati più alti nei test di ragionamento induttivo - collegato all’intelligenza generale - rispetto ai mattinieri.
4. Una ricerca pubblicata nel 2009 dall’Università di Liegi ha seguito 15 nottambuli e 15 mattinieri e misurato l’attività cerebrale immediatamente successiva al loro risveglio, e poi di nuovo 10 ore e mezza più tardi. La ricerca ha scoperto che i partecipanti ottenevano punteggi analoghi nel primo test, ma che poi, 10 ore e mezza dopo il risveglio, i mattinieri presentavano rispetto ai nottambuli un livello inferiore d’attività nelle regioni del cervello legate all’attenzione.
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Vi sono sette parti della notte: il vespro, il crepuscolo, il conticinio, l’intempesto, il gallicinio, il mattutino e il diluculo.
Isidoro, Etimologie
Il vespro, la stella dell’Occidente, che segue subito il tramonto e precede le tenebre che seguono, continua a splendere per tutta la notte che crediamo di stare attraversando e in cui invece dimoriamo. Il crepuscolo è una luce dubbia. Creperum significa infatti l’essere in dubbio, cioè fra la luce e le tenebre. Il conticinio è quando tutti tacciono. Conticiscere significa infatti tacere. L’ intempesto è un tempo della notte che sta nel mezzo ed è inoperoso, quando nessuna azione è possibile e tutte le cose sono acquietate nel sopore. Il gallicinio è così chiamato perché i galli annunciano la luce. Il mattutino è fra il dileguare delle tenebre e l’avvento dell’aurora. È detto mattutino perché è il tempo del mattino incipiente. Dilucolo, quasi piccola luce incipiente del giorno. È l’aurora, che precede il giorno. Il dilucolo, l’aurora, è l’immaginazione che accompagna sempre il pensiero e gli impedisce di disperare anche nei tempi più barbari e oscuri.
Giorgio Agamben
Una specie di mago fa entrare un tale dentro a una portantina, insieme al suo romanzo preferito; una volta chiuse le porte, la persona all’interno batte tre colpi e, come d’incanto, si trova proiettata dentro quel libro: così può conoscere dal vero la sua eroina, perfino vivere con lei una storia d’amore e poi fare ritorno alla sua vita reale, sapendo di poter tornare da lei quando vuole.
In sintesi, è la trama di un delizioso racconto di Woody Allen. La cito perché ho sognato anch’io d’esser dentro a un libro scritto a più mani, da tanti di noi che, come a comporre un sincrono Decamerone, uniscono talento&cuore per dar corso a una nuova storia, per esorcizzare il sentirsi granelli del niente, incastrati, impotenti, nel collo d’una clessidra a tenuta ermetica. La location era esotica, di grande appeal, almeno per me che sono un impenitente sagittario-viaggiatore: il Buthan, sulla lista delle mie future mete. La luce era abbagliante, l’orizzonte indefinito, l’aria fremissant. Pensieri pensati insieme, per tessere trama e ordito. Le storie, infondo, accumulano quel che accumula il mondo. Molti vorrebbero scrivere del nostro nemico interno, il Tempo, e del nostro terrore che scorra senza che noi lo vediamo passare. Io propongo, fuori dal coro, di indirizzarci perso la Felicità, probabilmente suggestionata dal ricordo connesso al re del Buthan, che aveva deciso di far calcolare gli obiettivi annuali di crescita del suo Paese in termini di FIL – Felicità interna lorda – invece di usare il classico parametro del PIL – Prodotto interno lordo. Un cane abbaia in lontananza, mi sveglio. È la ruvida alba del 25 marzo, ottantacinquesimo giorno di questo inimmaginabile anno bisestile, primo Dantedì, recentemente istituito dal Governo, diciassettesimo giorno di divieto d’uscir di casa, ma anche celebrazione dell'Annuncio dell'Arcangelo Gabriele a Maria, e curiosamente di San Dismas, il Buon Ladrone.
Mi alzo per bere un bicchier d’acqua, Una lama di verde, limpida come giada, fende il mare, e penso che vivere esige audacia. Immaginare la propria morte è peggio che morire[2]. Per fortuna esistono i sogni. Sorrido: mi è restato in mente il FIL, che cerca di afferrare valori meno materiali e più spirituali, sulla base del principio che più ricchezza non vuol dire più felicità e che il compito di un Governo dovrebbe essere massimizzare proprio la felicità dei cittadini e non il loro reddito. Ecco, che vorrei escogitare un modo per sensibilizzare alla cultura della cortesia e della piacevolezza, del sorriso e della benevolenza, in contrasto a quella dell’insulto e della prevaricazione, del pettegolezzo e dell’arroganza, forme di violenza tanto à la mode nel nostro tempo. Tempo per lo più, per molti, segnato da un vuoto stracarico di rinuncia, di atrofia dei sentimenti, di incompiuta crescita emotiva, di assenza di gravità propria di chi si muove tra gli altri suoi simili come in uno spazio in disuso. Tempo di progetti mai irrigati, che alla fine si dileguano, di passioni prima affievolite e poi definitivamente spente, di incertezze che disgregano i sogni di un lontano passato, di infedeltà ai modelli introiettati, di tappe inconcluse di un viaggio senza più meta. Visto che per poter ricevere bisogna essere disposti a voler dare, ho deciso che contagerò gli amici e che scriverò per condividere e contaminare in modo fecondo: scrivere è solo il riflesso di qualcosa che pone domande. Uniamoci noi che non siamo statue dormienti, noi che siamo disposti a farci testimoni che una più adeguata destinazione di risorse a fonti di stimolo e di felicità personale non sia un’utopia. Così obbediremo all’insistenza positiva della Vita e ci faremo portatori sani della sua Armonia & della sua Bellezza, come tremiti vibranti di corde d’arpa pur appena sfiorate.
Giorni dispotici, distopici,
vicende, faccende, indifferenza, saturazione.
Feudi di dolore, baratri di stupore:
non esistono stagnazioni felici,
vivere esige audacia.
Essere come verbo, non come sostantivo.
Esistere, insistere, resistere.
Donarsi, non cedersi.
Perdonare qualcuno, non qualcosa.
Essere al mondo. Essere mondo.
Configurarsi.
dal mio testo teatrale COPRIFUOCO
conticinio
21 marzo a.D. 2020. Equinozio di primavera. Giornata mondiale della Poesia. È una delle mie notti insonni. Sono sul terrazzo che guarda la distesa del mare. ‘Assoluto’ è l’unico aggettivo che mi invade la mente, in questa prima stagione delle fioriture della Nuova Era. C’è qualcosa che non riesco a vedere >>> so che c’è qualcosa che non riesco a vedere >>> ma non so cosa non riesco a vedere (cito Laing [1]). Fa freddo, l’inverno stregone non ha ancora voglia di andarsene. Lo zero assoluto si posiziona a -273°C, di fatto una temperatura irraggiungibile. 273, come i secondi che corrispondono ai 4’33’’ della controversa, geniale composizione di John Cage. 29 agosto 1952, Woodstock: David Tudor è al pianoforte, apre il coperchio della tastiera, richiudendolo subito dopo, ripetendo il gesto altre due volte per scandire i tre movimenti che compongono il ‘brano’ (il primo di 30”, il secondo di 2’ 23” e il terzo di 1’40”), brano senza note, non-musica che è silenzio. Anche il silenzio rappresenta un’emissione di suono, in quanto tutti noi viviamo immersi nel rumore. Infatti durante quel concerto, nel corso del primo movimento si percepì spirare il vento, nel secondo il battere rimico della pioggia e nel terzo lo sbigottito mormorio del pubblico, che, indignato, abbandonava la sala. Molti, allora come oggi, non erano ancora pronti a questo ascolto, nonostante la readymade sculpture di Duchamp, l’astrattismo gestuale di Pollock, le avanguardie, le sperimentazioni. Troppa ignoranza, nel senso di ‘ignorare’ l’esistenza di un Mondo Altro da quello occidentale, sedimentato su concezioni di filosofia e arte stereotipate. Per quasi tutti furono solo 4 minuti e 33 secondi di utopico, menzognero, imperfetto silenzio.
Con la mente risalgo a Rauschemberg, con le sue pure tele bianche, ‘aeroporti’ per particelle di polvere e ombre presenti nell’ambiente; a Paik, il visionario coreano che ha girato un film provocatorio della durata di un’ora, che non contiene alcuna immagine; al tedesco di cui non rammento il nome che usava i ‘materiali di scarto del fare musica’, ossia i movimenti del direttore d’orchestra o il rumore prodotto dal pubblico in sala; a Schnebel, che proponeva musica da leggere invece che da ascoltare: io decido che ciò che ascolto è musica... è la mia intenzione di ascolto a conferire il valore di opera.
In questa notte di transizione, anch’io (come Cage raccontava stupefatto di ritorno dalla sua visita all’università di Harvard, dove aveva voluto personalmente sperimentare le sensazioni e le percezioni dentro la camera anecoica), mi sorprendo nell’udire distintamente due rumori distinti – uno grave, uno acuto –, tipici del lavoro dei miei apparati cardiocircolatorio e nervoso. In una non-musica i rumori risaltano e si fanno a loro volta musica, sotto una forma differente, a seconda della sensibilità di ciascuno. Secondo Picasso l’opera d’arte, che di fatto è un simulacro, è il pretesto che consente di accedere alla verità. Quale verità? È che tutti abbiamo paura – Pirandello docet – di perdere, mutando, la realtà che ci siamo dati e di riconoscere quindi che essa non era altro che una nostra illusione. Il Virus con la Corona di questo periodo è qui, nostro malgrado, forse proprio per ricordarcelo. La verità… io sono colei che mi si crede e per me nessuna... afferma ieratica la velata signora Frola, nel finale di Così è se vi pare. Concordo.
Credo che ogni verità resti inconoscibile, inafferrabile. O forse questo vale per la Verità di Dio. Ai non credenti non resta che accontentarsi di verità soggettive, nel frame di una data cultura, mutevoli, cangianti, liquide a seconda del punto di vista. A me ha insegnato molto l’estetica della pittura giapponese, che ci mostra quanto sia determinante lo spazio rispetto alle raffigurazioni: è il vuoto che garantisce che la forma verrà presa in considerazione.
Non c’è distinzione tra rumore e suono, il silenzio altro non è che un mutamento della mia mente. Se accetto tutti i suoni, arrivo a ciò che suono non è più; ma, visto che esiste il non-suono, non esiste il silenzio.
intempesto
Volvere delle stelle eterne, dei vulnerabili umani:
girare, rotolare, come sassi, flutti, lacrime o astri,
come il fuso delle Parche o la caduta di Fetonte.
Evolvo: indietreggiare sul mio desiderio è l’imperdonabile.
Liscia, ignara di anfratti, chiara,
percorro isotere e isoterme,
per scoprire quali raggi balenano nel buio delle porte di Tannhäuser,
e cosa naviga al largo dei bastioni di Orione.
Voglio un viaggio sulla Luna, come Cyrano, Astolfo e Luciano.
Evolvenza.
dal mio monologo teatrale IL DESIDERIO DI GERTRUDE
gallicinio
14 marzo a.D. 2020, quasi l’alba, poche stelle distratte stanno per spegnersi. Rammento, dalle golose lezioni al magico Planetario di Milano, che la Via Lattea era dagli antichi ritenuta il luogo delle visioni nonché via di passaggio tra cielo e terra, ma anche luogo tremendo, perché vi convergevano tutti i morbi. Poi la mia mente si fa raggiungere da un altro ricordo legato a Nicandro di Colofone (non lontano da Efeso), autore di due poemetti didascalici in esametri: in Theriaka canta all'amico Ermesianatte le forme degli animali velenosi che colpiscono l'uomo, senza che se ne avveda, gli effetti che il loro veleno produce sul corpo umano e i contravveleni relativi; negli Alexipharmaka, il poeta descrive bevande e pozioni velenose e ne enumera gli antidoti. E penso che della Vita, tutti ne hanno sempre avuta fame.
Aspetti il Nulla, attendi l’Invano &, intanto, la vita si srotola.
Usciti dal tempo di Kronos, dove è negato il fluire, torniamo in quello di Zeus, ritmato dal sorgere & dal calar del sole.
Dal morso di mela, tutti siamo puro dolore in attesa di accadere, andiamo da un dove all’altro diventando tutte le cose,
scrittori che correggono & riscrivono, alla ricerca di quell’impalpabile sfuggente, giallo polline di giglio,
che vive nascosto tra mille possibili scelte, in cui, talvolta, cogli l’impronta del Creatore.
Nei ‘denti di leone’, i soffioni, di cui si nutrì Teseo, per diventare forte (il Minotauro andava sconfitto), fin da piccola ho intuito Speranza.
Pane & Puccini, focaccia & vampiri han svezzato le mie amiche;
Bianche Sfere di Pappi, affidatarie degli acheni & dei miei desideri, & Ankh, la croce ansata egizia
(un sandalo visto dall’alto: cammino, ma anche uno specchio di rame che riflette il sole: guardo, vedo, penso, interpreto),
han forgiato la mia inquieta esistenza,
tutta tra il rumore & il silenzio, tra lo stare & l’andare.
Dopo l’attanagliante Cancer, tornato costellazione, di stella in stella sono ricaduta nella vita:
sciolgo al vento una vela piena di colori & faccio rotta, tra quadrature & siżìgie,
verso l’orizzonte dell’Isola che C’è,
perché Dio è nel mio cuore, o meglio, perché io sono nel cuore di Dio.
Mi accorgo d’aver citato una corolla, quella tubulare, prolungata in una ligula normalmente gialla, del Taraxacum officinale, erbacea perenne, il cui frutto è un achenio bislungo, a base acuminata, da cui s’allunga un filamento che porta all'apice il pappo, composto da setole ramificate disposte orizzontalmente a forma di ombrello. Aspetto sempre il miracolo di un bocciolo dalle mie vecchie piante, così come ora attendo, come tutti, il dischiudersi della buona notizia che ci sgraverà dell’assedio di questa virulenza di veleno& terrore. Nel frattempo adottiamo la caratteristica tipica dei virus, ossia di venir trasportati passivamente finché non trovano una cellula da infettare: non sentiamoci soli di default, debilitati dal rancore, ma, piuttosto, sappiamoci certi che non anneriremo sotto cieli indifferenti, contagiamoci positivamente. Trasferiamo cura, spirito di collaborazione e voglia di condividere la forza propulsiva del Bello. In questa sala d’attesa dove tutti siamo parcheggiati, attendiamo fiduciosi il nostro turno per ritrovare la quiete: il deserto fiorirà di nuovo. Ho sempre apprezzato l’idea di una profezia che si autoavvera. Provare per credere.
mattutino
Non si salva l’esistente,
non ci si salva dall’esistente.
L’esistente non è salvabile.
Dalla vita non ci si salva:
è ‘insanabile’, sostiene Omero, e va accolta intera.
Strano vocabolo: ‘salvezza’;
i Greci, per esso, non hanno mai avuto una parola, se non luce: phaos,
che è giorno, forma, fiamma.
È la luce che ci fa vedere.
Dal mio testo teatrale LE MANI DI NESSO
dilucolo
Giorni pieni. Sere stanche.
Noi, quaggiù, nomadi, come là in alto le stelle.
Il tempo è una traccia che torna, un passato che non passa.
Giorni e persone sono prestiti,
il tempo è un bambino che gioca.
Siamo ciò che la vita ci consente,
in un divenire continuo di illusioni e fiori;
siamo rigurgiti delle maree,
eventi mobili…
piume, pulviscolo, aliti d’aria, elitre, vele.
Dal mio testo teatrale CARDIOMANZIE
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