Sono ormai molte le discipline che si sono interessate scientificamente allo studio dei ‘rituali’: il sociologo Karl Gabriel ha tentato una definizione di sintesi rispetto ai vari approcci e li ritiene ‘azioni stilizzate e ripetibili nei punti di passaggio e di frattura tipici della quotidianità moderna’.
Alcuni autori correlano il vocabolo rituale con il greco árithmos, ‘numero’, per cui esso diventa ‘qualcosa che è stato messo in conto’, che dà una struttura, mentre altri alla radice indiana antica rtáh, ‘adeguato, giusto’, da cui rituali come ‘qualcosa di adeguato all’essere umano’; Victor Turner invece indica la radice indo-europea ri (‘flusso’), poiché ritiene che solo se si resta all’interno dei canali tradizionali in cui l’azione collettiva deve scorrere potrà esser raggiunta l’armonia promessa dal rituale.
Non interessa qui ora trattare i rituali individuali e personali [1], che esprimono sentimenti e creano l’intimità, che rafforzano una relazione (festeggiamenti di anniversari, compleanni; rituali nelle organizzazioni aziendali), o che creano l’identità (personale, ma anche familiare e aziendale); che commemorano o che fondano una patria (in senso del tedesco Heimat); concentro invece l’attenzione su quelli che creano un tempo e uno spazio sacri, cui il mondo non ha accesso, diventando quindi un momento anche di riposo e di stacco dalla quotidianità (Nel rituale il mondo per un po’ di tempo si calma e noi in esso. H. Ernst). Durante i rituali il chrónos (il tempo scandito e misurato che ci divora) è spodestato dal kairós (il tempo di grazia e piacevole da vivere), facendo entrare in vigore regole diverse rispetto alla ‘normalità’.
Nel tempo sacro entro in contatto con il nucleo sacro dentro di me. Qui sperimento che in me esiste uno spazio sacro, sottratto alla presa del mondo. [...] Qui mi è permesso l’incontro con Dio. [...] Mi fermo e trovo stabilità e rivolgo l’orecchio verso l’interno, confidando nel fatto che Dio è in me, che mi circonda e che desidera parlarmi [2].
Durkheim ha dedicato attenzione e studio ai rituali, in quanto momenti della vita sociale contraddistinta da una forte densità fisica (presenza di molte persone), sociale e morale (partecipazione individuale e collettiva alla vita in comune, incanalando le coscienze contemporaneamente sullo stesso oggetto - il simbolo, il Sacro, la società -, percependo la coesione del gruppo e la potenza dell’agire collettivo - canti e danze). La religione è infatti una forza d’integrazione sociale [3] potente, capace di fornire agli individui i valori morali nei quali identificarsi. È proprio tale effervescenza sociale [4] a farsi pertanto veicolo d’elezione attraverso il quale il Sacro arriva al cuore dei singoli individui, che hanno consapevolezza di essere insieme in uno stesso tempo-spazio speciale (liminale), concentrati su un medesimo oggetto sacro (simbolo). Tutto questo genera entusiasmo.
I rituali sono testi (intrecci di comportamenti, gesti, azioni, suoni, canti, danze), specie di finestre attraverso cui avere accesso ai significati dispiegati da una cultura; le loro funzioni sono intrinseche, prodotti endogeni della viva partecipazione emozionale; la loro azione collettiva provoca effetti stimolatori nelle cerimonie, ma anche nella vita quotidiana.
Tra gli studi più noti sul ‘rito’, va citato quello di Arnold Van Gennep ('Les rites de passage', 1909), in cui i riti accompagnano le diverse fasi di vita (nascita, iniziazione, matrimonio e morte) sancendo un mutamento nello status sociale dell’individuo all’interno della collettività di appartenenza. Altro contributo rilevante su questo tema e quello fornito da Victor Turner [5]. Lo studioso designa il rituale (che suddivide in ‘unità drammatiche’) come comportamento formale prescritto per certe occasioni relative a credenze in esseri o poteri mistici e lo ritiene associato ai cambiamenti sociali. I rituali sarebbero dunque un’orchestrazione di molti tipi di performance trasformativa e si esprimerebbero attraverso tutti i sensi dell’uomo [6], attraverso probabili grammatiche generative, che, in base alle situazioni socio-culturali in cui sono immesse, producono riti visibili. Turner fa notare che in molti contesti rituali diversi appaiono simboli dominanti (cita l’esempio dell’immagine della Vergine di Guadalupe), oggetti ‘eterni’, che posseggono una notevole autonomia rispetto agli scopi dei rituali di cui fanno comunque parte. Tre i significati di questi simboli:
- manifesto, collegato agli scopi espliciti del rituale; il soggetto ne è consapevole;
- latente, collegato ad altri contesti rituali e pragmatici di azione sociale; il soggetto può esserne consapevole solo parzialmente e diventarlo poi pienamente;
- nascosto, collegato alle esperienze infantili (forse anche prenatali) condivise con molti altri esseri umani; il soggetto è inconsapevole.
L’eccitazione sociale che scaturisce durante l’esecuzione di un rituale, unita agli stimoli fisiologici diretti di chi vive quell’evento, fa sì che il simbolo dominante eserciti il suo potere trasformativo, collegando così insieme le emozioni e le norme etiche e giuridiche.
I simboli strumentali invece (per esempio: le candele, l’inginocchiarsi) vengono usati in funzione dello scopo apparente di uno specifico rituale. Infine, i paradigmi radice (esempio assoluto: la via crucis) riescono a penetrare l’irriducibile centro degli individui, andando oltre l’apprendimento consapevole, per emergere durante i momenti di crisi. Purtroppo i simboli possono tramutarsi in veri e propri ‘paraocchi’ che impediscono di arrivare alla conoscenza profonda di una fede, come invece dovrebbero aiutare a fare: l’errore è quello di accreditare un potere reale autonomo al simbolo, che non più porsi come tramite di salvezza.
Quando si parla di simbolismo religioso invece si intende quell’insieme di segni (immediati, semplici e universali) che, per astrazione, mettono in particolare evidenza aspetti importanti delle religioni; tra gli innumerevoli (quanto altrettanto innumerevoli sono le loro possibili interpretazioni), ecco un breve elenco dei più frequenti:
- per il Cristianesimo: la croce (che ricorda il sacrificio di Cristo e la fede in un Dio Uno e Trino), il Pastore, l’Ancora, l’Agnello, il Pellicano o il Pesce (per via delle lettere iniziali in greco del suo nome: Jesous Christos Theou Hyios Soter, ‘Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore’) tutti simboli di Gesù Cristo; il monogramma composto dalle lettere latine IHS per Jesus Hominum Salvator; la nave simbolo della Chiesa; il fuoco o il vento per indicare lo Spirito Santo;
- per l’Islam: la mezzaluna [7] (nuova luna crescente), ossia la luce che illumina l’oscurità, anche metaforica dell’ignoranza e della miscredenza; l’aquila, emblema di potenza e di regalità, e il gli uccelli mitici, come il favoloso Simorgh, simbolo d’immortalità (uccello mitico, che, come la fenice, può risorgere dalle proprie ceneri); la cosiddetta ‘mano di Fatima’, le cui cinque dita ricordano gli altrettanti precetti fondamentali della predicazione musulmana e i principali personaggi dell’Islam: Maometto, Ali, Fatima, Hasan e Hosein; il colore verde, che rappresenta il paradiso;
- per la religione ebraica: la stella (o scudo) a sei punte di Davide, detta anche Sigillo di Salomone; la menorah, candelabro a sette braccia, simbolo del roveto ardente in cui si manifestò a Mosè la voce di Dio sul monte Horeb, o, secondo altre ipotesi, rappresentazione del sabato (al centro) e dei sei giorni della creazione;
- per il Buddhismo: il dharmacakra (detta anche ‘Ruota del dharma’ [8]), un’arma sacra di Indra, lanciata dal Buddha per colpire gli ostacoli/gli errori/gli attaccamenti che impediscono all’uomo di raggiungere il Nirvana (i suoi otto raggi tradizionali rappresentano il ‘nobile ottuplice sentiero’); la svastica o croce uncinata (comune anche all’Induismo e al Giainismo), una croce equilatera con i bracci piegati ad angoli retti: usata come simbolo da molte culture fin dal neolitico, generalmente con significati augurali o di buona fortuna, ha finito per essere riconosciuta unicamente come emblema nazista;
- per l’Induismo [9]: il lingam, che richiama Shiva e la fertilità maschile, ma anche il suono primordiale aum/ohm, la celeberrima sillaba sacra, presente nei mantra ed utilizzato in tutte le adorazioni; il fiore di loto, simbolo di purezza e bellezza; il tilaka, simbolo posto sulla fronte dei fedeli, per evidenziarne l’appartenenza alle differenti correnti indù;
- per lo Shintoismo: il torii, tradizionale portale d’accesso giapponese (due colonne di supporto verticali e un palo orizzontale sulla cima; quasi sempre di colore vermiglio) che porta ad un jinja (santuario [10] shintoista) o ad un’area sacra: è ritenuto simbolo di fortuna e prosperità;
- per il Taoismo e il Confucianesimo: yin (lato in ombra della collina; corrisponde alla notte/luna/buio/freddo/femminile e alle funzioni di riposo, inverno/autunno, destra, terra, fenice, morte) e yang (lato soleggiato della collina; corrisponde al giorno/sole/luce/caldo/maschile ed alle funzioni più attive, estate/primavera, sinistra, cielo, drago, vita) [11].
Un ultimo concetto: si dice iconicità la rappresentazione materiale delle idee religiose [12], collegandone chiaramente il significante al significato [13]. Il marianismo per esempio è diventato epitome dell’iconicità nella pratica rituale cristiana, ma in molte religioni esiste il problema dell’iconoclastia (esiste qualcosa di cui non si può parlare, per cui si distruggono gli elaborati significanti).
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