Ansia, potere e aggressività
Tutti sappiamo per esperienza cosa sia l’ansia: uno stato d’animo che non è sempre anormale; alla vigilia di un incontro importante o di un esame, prima di un intervento chirurgico, quando si riceve una notizia grave... chiunque può sentirsi normalmente ansioso. Tale stato psicologico di attesa, in rapporto a eventi incombenti, che comporta allarme, attenzione e vigilanza, segue a un primo vago segnale di pericolo e precede la manifestazione del pericolo stesso [1]; negli animali superiori lo stato d’ansia è la condizione di preparazione dell’intero organismo per un’emergenza, per uno sforzo fisico improvviso, una difesa attiva, l’attacco o la fuga. Nella vita quotidiana vengono accettati nel panorama della normalità svariati sintomi nevrotici oltre all’ansia: le insicurezze, le fobie, i rituali, i ‘nervosismi’. Quando tutti questi disturbi vengono avvertiti dal soggetto come un ostacolo sulla via delle sue aspirazioni di vita si rivelano essere veri disagi nevrotici. L’ansia nevrotica [2] dell’uomo è sempre un’ansia conflittuale e si manifesta quando la situazione da affrontare non è chiara, i termini della scelta possono essere contraddittori e il soggetto può trovarsi spinto ad agire in modi incompatibili tra loro, in conflitto, appunto.
Tutta la vita organizzativa, nelle sue dimensioni relazionali e operative, è percorsa da ansietà: il tentativo di ridurle, se non annullarle, passa attraverso i ‘meccanismi di difesa’ che, se pure originantisi dalla storia dei singoli, vengono concretamente ad assumere un carattere socializzato e condiviso. Quindi la difesa dall’ansia genera nuova ansia e nuove ragioni per difendersene, in un circolo vizioso paradossale.
Le organizzazioni, in quanto sistemi (aperti) di azioni e decisioni, devono costantemente confrontarsi con la provvisorietà e l’incertezza, che aumentano proporzionalmente alla complessità e alla turbolenza dell’ambiente in cui operano: Larry Hirschhorn, nella sua interessante prospettiva psicodinamica [3], ritiene che quando l’ansia si insinua, le procedure razionali vengono sviate da processi irrazionali e la ‘norma del danno’ (psicologico, che prende il posto dell’ansietà) diventa inevitabile.
Le fonti di ansia nelle organizzazioni sono essenzialmente individuabili nelle frontiere organizzative (quando mal disegnate/mal gestite, viene a mancare la necessaria barriera protettiva rispetto all’esterno), nell’esercizio del potere (dimensione particolarmente insidiosa, temuta in particolare dalle persone che non hanno un’immagine di sé sufficientemente positiva) e nelle dinamiche di ruolo (incertezze a riguardo possono indurre ad esempio a sottovalutarsi e a non ritenersi all’altezza dei compiti affidati, giudicando gli altri come persecutori).
Inserendo anche il tema dell’aggressività [4], Hirschhorn è convinto che lavorare in un’organizzazione implichi rischi, vissuti soggettivamente come minacce, verso i quali ci si sente ‘in dovere’ di reagire con particolare forza, ricorrendo all’ostilità, che va oltre quell’innato istinto fondamentale alla sopravvivenza in base al quale si reagisce in modo difensivo contro un attacco alla persona o un’invasione del territorio personale o una sottrazione di un bene.
Rabbia e aggressività non hanno necessariamente le medesime cause e nemmeno gli stessi effetti; sono però accomunate dall’emozione di sgomento e paura che suscitano negli altri, poiché fanno diventare ‘temibili’.
Allcorn, delineando una sorta di fenomenologia della rabbia, considera che la percezione di un evento o di un’azione letta come minacciante/ingiusta/frustrante comporti una ferita al Sé e una diminuzione di autostima: da qui lo stato di attivazione psicofisica nel tentativo di ridurre l’ansia. Tra provare a cambiare le cose (la rabbia è consapevole) e fuggire dalla fonte dell’attivazione (elusione [5]) si dipana una vasta gamma di risposte possibili. Quando la rabbia è presente, che sia consapevole o no, può essere espressa in relazione all’accettabilità dell’emozione stessa e di quanto sia sostenibile dalla persona e legittimata dal contesto: quindi una rabbia ‘accettabile’ per la persona è un sentimento che può essere contenuto ed elaborato (così che l’energia che contiene può essere ‘spostata’ in attività tese a cambiamenti per ristabilire il senso di sicurezza originario, oppure richiedere un’attività sostitutiva per bilanciare la rabbia e ricostituire un equilibrio psicologico positivo, o ancora essere comunicata, dando vita a conflitti gestibili e risolvibili attraverso il confronto e la negoziazione), mentre una rabbia ‘non accettabile’ [6] – insopportabile – lascerà sempre una scia dopo di sé (potenzialmente capace di riattivare dinamiche ostili), non trovando vie di assorbimento e liberazione. Infine la rabbia potrà essere anche riconosciuta e, in un passaggio estremamente critico, esprimersi in forme di aggressione non mediata: ma Allcorn ricorda che l’aggressione (nelle sue varie declinazioni di attacco fisico, verbale o rituale, ma anche passive di competizione non frontale e antagonismo) è un comportamento distruttivo, disapprovato socialmente e spesso dannoso per il Sé.

Aggressività e invidia nel mentoring
A Mentore Ulisse affida il piccolo Telemaco, prima di partire per la guerra di Troia: dal nome di questo personaggio omerico deriva mentoring, ossia quel processo di temporaneo affidamento di chi sta iniziando il suo percorso in un’organizzazione, a qualcuno che per esperienza e disponibilità sappia assumersi la responsabilità di attuare un inserimento [7] efficace e formativo. Molte ricerche confermano l’importanza di questa esperienza interpersonale coinvolgente rispetto al processo di crescita individuale; ovviamente non è da escludere la possibilità che il mentoring possa comportare sentimenti di pericolo e minaccia, per le dinamiche ‘edipicamente’ ambivalenti che può estrinsecare.
Howell Baum [8] sostiene che un neoassunto possa inconsapevolmente essere spinto dal suo ‘mentore’ a tornare con l’immaginazione a esperienze che assumano i connotati delle relazioni parentali, riproponendosi così tematiche narcisistiche o edipiche, con dinamiche di idealizzazione, invidia e gelosia o aggressività. Se all’inizio è facile assistere a una forte mitizzazione della relazione, da parte del nuovo assunto, con l’instaurazione di un eventuale legame affettivo, col tempo possono invece affiorare vissuti di delusione e disillusione, con tensioni e conflitti che portano alla rottura. Anche il ‘mentore’ può opporsi (e mettere in atto resistenze) ai desideri di indipendenza, spesso interpretandoli come segno di inequivocabile ingratitudine, arrivando persino a elaborare fantasie di timore di perdita del ruolo per sostituzione con il giovane assunto. Solo quando, nell’inesorabile gioco delle parti, toccherà al neoassunto impersonare a sua volta il ‘mentore’ – riproponendo il filo della narrazione dell’organizzazione – diverrà consapevole di come nessuno in fondo possa sottrarsi alle difficoltà dei riti di passaggio.

Tipologie di personalità aggressive
Un’elaborazione ottimale dell’aggressività richiede bilanciamento tra quella diretta verso l’interno e quella diretta verso l’esterno dell’organizzazione. Da questo dipenderanno sopravvivenza e adattamento alla vita organizzativa. In funzione di questo argomento, Kets de Vries propone e descrive quattro stili nevrotici, che si diversificano in termini di orientamento al narcisismo, alla rivalità, alla dipendenza e alla ribellione.
Dall’introiezione dell’aggressività derivata da sentimenti di frustrazione e deprivazione, che inducono a perdita di interesse per il mondo esterno, deriva la posizione [9] narcisistica: ecco che fantasie di onnipotenza e grandiosità cercano di sostituire la realtà esterna; le aspirazioni lavorative sono elevatissime e l’attivismo frenetico mira all’eccezionalità. In un certo senso tanto ‘sacrificarsi’ al lavoro placa la coscienza.
La posizione di rivalità invece volge l’aggressività in strategia per affrontare i confronti e la ricerca verso il primato diventa la sfida competitiva per antonomasia. Il successo però, dimostrando la sconfitta del rivale, potrebbe far emergere vissuti di autocolpevolizzazione, essendo temuto così quanto il fallimento, che espone il soggetto all’umiliazione. La rivalità è pertanto paralizzante.
La posizione di dipendenza, anch’essa caratterizzata dall’introversione dell’aggressività, è imperniata sul bisogno di attaccamento: se tutto questo si accompagna a un disinteresse da parte degli altri, la risposta più frequente è quella di un disperato sforzo di assumersi tutto il carico di lavoro e di relazione. Dubbi, insicurezze, senso di inadeguatezza faranno temere disapprovazione: la soddisfazione non è mai possibile.
Ultima infine, la posizione di ribellione, ricca di comportamenti provocatori, porta diversamente dalle tre precedenti, a un’aggressività rivolta verso l’esterno, essendo legata a un sentimento di indipendenza. Il lavoro viene vissuto come un dovere, obbedienza e volontà di controllo sono in perenne lotta e questa visione oppositiva appare impossibile da compensare.

La sindrome da workaholismo
Se la persona non riesce a integrarsi nell’organizzazione sviluppa, secondo Kets de Vries, un adattamento ‘difettoso’ al lavoro, assumendo una forma di alienazione, come se ogni cosa le sembrasse irreale e priva di significato e la vita scorresse come un film, nei cui riguardi fosse spettatore disinteressato. Eppure, nonostante questo, l’individuo assume un comportamento ‘normale’, adeguandosi alle norme e diventando uno ‘strumento’ per l’organizzazione. Proprio partendo dall’individuo come se, l’autore analizza così alcune patologie organizzative, tra cui l’alessitimia [10] (Kets de Vries la traspone dalla clinica al mondo delle organizzazioni caratterizzate da una cultura di mediocrità e stagnazione, in cui risulta ‘conveniente’ bandire l’emotività dalla vita organizzativa) e la dipendenza dal lavoro.
In quest’ultima si identificano i cosiddetti workaholisti, il cui sintomo principale consta nel coinvolgimento in un’attività incessante e in un’incapacità di fermarsi e godersi il tempo libero.  Iperefficienza, scarsa pazienza, presunzione alle stelle, irascibilità, irritabilità e nervosismo diffuso, ansietà e insicurezza delineano questi profili: essi si sentono decisamente ‘i migliori’ e dunque insostituibili. Praticamente impossibile per loro provare un senso di soddisfazione (in fondo sanno di essere stimati per ciò che fanno, ma non per ciò che sono), sono critici implacabili di se stessi e di chi li circonda. Kets de Vries ritiene che aver fortemente interiorizzato le proibizioni dei genitori, sia per timore della punizione, sia per un grande bisogno di amore e approvazione davanti alle aspettative elevate nei loro riguardi, abbia segnato il loro destino, sforzo estenuante di compiacere un mondo esterno fatto di ‘altri’ minacciosi, avidi, invadenti e tormentosi e di essere sempre all’altezza dell’elevato standard interiore.
Come gli alessitimici che hanno elaborato il tema del morire (che sta dietro quello dell’aggressività), dandosi di fatto già in vita una morte psicologica, nella ricerca di annientamento nel lavoro dei workaholisti si ritrova simbolicamente la ricerca di annientamento di quella parte di sé che, avendo rinunciato alle possibili alternative di vita, ha esorcizzato il tema della morte, anticipandola.
Ernest Becker, sulla stessa linea di pensiero, ritiene che gli esseri umani trascorrano buona parte della loro vita nel tentativo di negare la realtà incombente della loro mortalità [11] e che anche le organizzazioni possano essere spiegate come una forma di ricerca di immortalità. Esse infatti trascendono la vita del singolo e spesso sopravvivono per generazioni. I tentativi di controllare e organizzare il mondo circostante, in ultima analisi, dunque si possono leggere come tentativi di controllare ed organizzare noi stessi.

Il manager arrogante
Ancora un accenno per descrivere quelle figure in cui rabbia e aggressività si orientano all’esterno, manifestandosi in comportamenti competitivi, dispregiativi, controllanti, estremamente apprezzati dalle organizzazioni collusive. Grande è il vuoto nella biografia di tanti manager arroganti, solitamente dotati di notevole intelligenza e attitudine al problem solving, rapidi nell’afferrare le situazioni e nell’immaginare soluzioni praticabili, tanto luminosi all’apparenza, quanto oscuri nella profondità del loro essere fondante. Una miscela di narcisismo reattivo e di freddezza emotiva, insomma.
Quando poi, nella loro posizione privilegiata, sono coinvolti nelle decisioni da prendere entro i processi di downsizing vivono (loro che sono sostenuti da meccanismo di scissione e svalutazione!) queste situazioni di ridimensionamento come esito naturale del comportamento delle persone licenziate.
“Un buon manager non dovrebbe mai confondere la potenza con la forza. L’arroganza è di impedimento al manager poiché diminuisce la sua potenza creativa. Un manager cresce attraverso la modestia. Un manager deve avere una mente aperta ed essere disposto a dare per poter ricevere” sono solo alcune delle ‘pillole di saggezza’ del Tao, l’antica disciplina orientale, che Bob Messing, business manager, imprenditore, nonché docente universitario alla Rutgers University del New Jersey, espone al lettore nel libro Il Tao del management [12]. Un libro che vuole proprio essere una guida contro l’eccesso, la dismisura, la prepotenza che caratterizza molto spesso i comportamenti all’interno dell’organizzazione, ma anche una meditazione sulla complessità del semplice e su come l’equilibrio e l’armonia siano il risultato di un’educazione profonda.

Il riorientamento della rabbia da parte del leader
Un leader davvero efficace è in grado di re-dirigere i sentimenti di rabbia verso compiti produttivi, verso una competizione costruttiva nei confronti di un concorrente, verso un obiettivo, che istituisce la meta, il traguardo atteso e al tempo stesso il cammino. Stare al centro dell’azione del gruppo di lavoro, ovvero con-centrarsi, significherà allora proprio attivare e sollecitare la collaborazione, la fiducia e la motivazione per investire positivamente le energie disponibili.
‘Ri-orientamento’ [13] è il processo per cui lo stile di vita di una persona cambia, a patto che acquisisca consapevolezza (improvvisamente ­– insight – oppure gradualmente), che rappresenta il primo passo per modificare il proprio copione. Non sempre però questo riorientamento della rabbia avviene e funziona. L’ansia viene spesso ridimensionata confidando in un leader protettore/salvatore nei confronti di un nemico onnipresente.

Strumenti per misurare la rabbia
I professionisti che operano nelle scienze psicologiche hanno a disposizione numerosi strumenti specifici per misurare intensità, frequenza e tipo prevalente di arrabbiatura. Tuttavia occorre precisare che questo tipo di valutazione risulta particolarmente aleatoria quando si basa su quanto il soggetto riferisce, come si verifica con gli strumenti di autovalutazione o con le scale compilate dall’osservatore sulla base dei dati ricavati dal colloquio [14]. Nonostante questi limiti, l’aggressività può essere indagata con risultati soddisfacenti, mediante i classici questionari di personalità o altri questionari specifici; inoltre, utilizzando tecniche proiettive, l’aggressività può essere studiata anche quando non è espressa ed investe i livelli più profondi.
Tra gli strumenti che valutano l’aggressività in generale (come tratto comportamentale o temperamentale) è stato messo a punto da Cook e Medley, nel 1954, un adattamento del Minnesota Teacher Attitude Inventory, denominato Hostility Scale, una scala di autovalutazione [15] che misura in particolare la sfiducia e il cinismo.
Tra i questionari probabilmente più utilizzati per valutare i tipi di aggressività e le modalità con cui viene manifestata [16], va citato anche il Buss Durkee Hostility Inventory - BDHI (Buss e Durkee, 1957): attraverso item dicotomi (‘vero/falso’) vengono definite 7 tipologie di condotta aggressiva (diretta, indiretta, verbale, irritabilità, negativismo, risentimento e sospettosità); risultato del rapporto ‘aggressività totale’ e ‘colpa’ è un ‘indice di inibizione/disibinizione dell’aggressività’. Caprara e altri autori [17] hanno invece lavorato su Scale di Ruminazione/Dissipazione/Irritabilità, indicate per indagare le modalità di esperire la rabbia (scala a 7 punti, da ‘completamente vero’ a ‘completamente falso’), misurando la disposizione degli individui a reagire impulsivamente, polemicamente, offensivamente alla minima provocazione/contrarietà.
Siegel (1986) ha creato un questionario multidimensionale composto da 38 affermazioni di tipo autodescrittivo (Multidimensional Anger Inventory), alle quali si risponde usando una scala a 5 punti (da ‘non mi riguarda per nulla’ a ‘mi riguarda completamente’): fu studiato per misurare le dimensioni della rabbia - frequenza, durata, intensità, modalità di espressione (interna, esterna, rimuginazione, colpa) che assumono maggiore rilevanza nell’ipertensione e nelle patologie coronariche [18].
Tra gli strumenti molto noti in Italia vi è poi lo STAXI: State Trait Anger Expression Inventory, messo a punto da Spielberger (1988). È un reattivo diviso in tre parti (‘come mi sento in questo momento’: furioso, scocciato, arrabbiato..., ‘come mi sento generalmente’: perdo le staffe, mi arrabbio facilmente..., ‘come si reagisce’: tengo il broncio, mi controllo, dentro di me sono critico verso gli altri...), che considera vari aspetti della rabbia, intesa come stato emotivo variabile di intensità, che può andare da un semplice senso di noia o fastidio fino a sentimenti d’ira o a stati di furia accompagnati dall’attivazione del sistema nervoso autonomo [19]. Lo STAXI consente di ricavare punteggi di Rabbia di stato [20] (S-Rabbia), Rabbia di tratto [21] (T-Rabbia), Rabbia rivolta all’interno (AX/In) e all’esterno (AX/Out), Controllo (AX/Con) ed Espressione della rabbia (AX/EX).
Esistono poi strumenti che valutano l’aggressività in acuto (quella cioè agita); il rischio di violenza e l’aggressività in particolari categorie di soggetti (bambini/adolescenti/anziani).
Interessante anche il Test di Rosenzweig, che non si basa sull’introspezione, come quelli sopra descritti, ma sul meccanismo dell’identificazione e della proiezione dei propri sentimenti su personaggi di scene a fumetti: le situazioni presentate evocano scene frustranti/spiacevoli e chi si sottopone al test deve completare la vignetta, inserendo la battuta mancante. In base all’analisi generale di queste frasi si possono descrivere diversi tipi di personalità e definirne il tipo di aggressività (rivolta prevalentemente verso gli altri, verso se stessi, negata).
Infine, per chiudere questa veloce incursione nel mondo specialistico degli strumenti di valutazione dell’aggressività, va citato ancora l’Anger Response Inventory, messo a punto da Tangney e coll., presso la George Mason University in Virginia. In tre versioni (per bambini dai 7 ai 12 anni, per adolescenti fino a 19 anni e per adulti), ricava misure circa l’inclinazione ad arrabbiarsi, il modo caratteristico con cui ciascun individuo reagisce quando è arrabbiato e la percezione che ha delle probabili conseguenze delle proprie reazioni. Analizzando le risposte si possono ricostruire le intenzioni (costruttive/malevole/evasive) e le reazioni (adattive e non/evasive/di rivalutazione cognitiva).

Strategie per arrabbiarsi meglio
Conviene davvero arrabbiarsi tanto? Il rischio di danneggiare i rapporti personali e lo star male conseguente a una sfuriata possono costituire una valida motivazione per ridurre questi effetti indesiderati e incanalare tutta questa energia per agire in modo efficace e adeguato sulla realtà. Ecco che tra gli estremi dell’eccessiva passività (va tutto bene, non ci si mette mai in discussione, vengono evitati il confronto e il conflitto a tutti costi) e dell’eccessiva aggressività – che certo non consentono di ottenere risultati positivi nella vita quotidiana privata e lavorativa – occorre allora prendere in esame una terza via: quella dell’assertività, ossia della capacità di esprimere i propri sentimenti, di scegliere come comportarsi in un dato contesto, di difendere i propri diritti quando necessario, senza violare i diritti ed i limiti altrui. Sua logica conseguenza saranno l’aumento della propria autostima e lo sviluppo di una sana dose di sicurezza in se stessi; l’acquisizione della capacità di esprimere serenamente un’opinione di disaccordo quando lo si ritiene opportuno o di chiedere agli altri di modificare i loro comportamenti quando vengono percepiti come fuori luogo o offensivi. L’assertività è dunque un approccio propositivo, costruttivo e positivo che, ci mette in condizione di gestire in modo positivo e costruttivo i rapporti interpersonali, ma è anche una tecnica che può essere appresa e che, con la pratica, diviene una capacità che può essere migliorata.
Mutuati dalla visione somatopsichica [22] dell’uomo, propria delle culture orientali, gli approcci alle rabbie moleste passano attraverso esercizi di rilassamento e di educazione al respiro nonché varie pratiche di meditazione e di movimenti. Meno noti invece gli approcci di stampo cognitivo al problema della rabbia disturbante o cronica: Aaron Beck, psichiatra e psicoterapeuta statunitense [23], fu il fondatore di questo indirizzo terapeutico, basato sull’assunto che there’s more to the surface than meets the eye (inversamente a quanto ritenuto fondante dagli assunti psicoanalitici), per cui ritiene utile il coinvolgimento nell’analisi clinica anche degli aspetti consci e razionali dell’individuo, oltre di quelli inconsci.
Nel caso della rabbia vissuta come sintomo pertanto il terapeuta, insieme con il paziente, cercherà allora di acquisire una conoscenza approfondita delle circostanze che suscitano rabbia, dei vissuti che si vorrebbero modificare, dei comportamenti ritenuti sbagliati, poichè alla base si ipotizza che il comportamento sia determinato essenzialmente dai pensieri e dal modo di interpretare la realtà circostante. Così dopo aver definito ciò che si vorrebbe cambiare dentro di sé, si registra su un diario, per due o tre settimane, a ore fisse, più volte al giorno, un resoconto sintetico delle arrabbiature più recenti; queste poi verranno classificate, in base a luogo, persone coinvolte e motivi suscitanti: scrivere ciò che si sente e si pensa, sicuramente ha un effetto liberatorio. [24] 

© all rights reserved

note
[1] La paura a differenza dell’ansia, ha un oggetto, una causa precisamente identificata, e prevede già un attivo comportamento di fuga. Il panico è uno stato di paura acuta, caratterizzato da irrazionalità e disordine nei comportamenti di fuga. L’angoscia è uno stato di ansia molto accentuato, venato di depressione e di disperazione (G. Jervis, 1978, op. cit., pag. 284).
[2] Da non confondere con l’ansia psicotica, che invece è l’angoscia di perdere le coordinate del centro e del controllo di sé e del proprio mondo.
[3] Si ispira soprattutto alle teorie delle relazioni oggettuali, a suo parere efficaci nel cogliere come gli individui si usino, in modo collusivo, l’un l’altro, per stabilizzare il loro mondo interno.
[4] Dal latino ad e gradi: andare, camminare. In ambito psicologico il verbo indica aggressioni fisiche e comportamenti ostili (gridare, insultare, essere scostanti o freddi...), anche se compare per lo più per indicare una dimensione transnosografica che non come un elemento psicopatologico nucleare e strutturante.
[5] Tre sono le possibili variazioni: a) trasformazione dell’ansia che, negata/razionalizzata/repressa/scaricata attraverso forme di attivazione fisica non viene percepita come collera; b) rimozione delle origini della rabbia, andando per esempio a rivedere le proprie attese e dunque convincendosi che quanto accaduto non era da tradurre come umiliante o ingiusto; c) vera e propria fuga, con abbandono della situazione/relazione in cui si collocava la fonte della rabbia.
[6] Potrà essere censurata, negata, repressa, restando inconscia e comparendo poi mascherata in altre situazioni, nascondendosi persino anche dietro il trucco della malattia psicosomatica.
[7] Non confondere l’inserimento – primo intervento di formazione/addestramento/assistenza sul neoassunto – con l’accoglienza, momento di informazione per evitare il disorientamento.
[8] L’autore di The Invisible Bureaucracy focalizza il risvolto psicologico dell’appartenenza a un’organizzazione di tipo burocratico, a partire dai caratteri fissati nel modello weberiano.
[9] ‘Posizione’ viene usato nel significato kleiniano.
[10] Il termine, che letteralmente significa non avere le parole per le emozioni, fu coniato da Peter Sifneos agli inizi degli anni ‘70, per definire una serie di caratteristiche di personalità riscontrate in pazienti psicosomatici. È un deficit della competenza emotiva ed emozionale e della funzione riflessiva del Sé, palesato dall’incapacità di mentalizzare, percepire, riconoscere e descrivere verbalmente i propri e gli altrui stati emotivi. Comporta scarsa empatia, linguaggio poco vitale, difficoltà di comunicazione, noia, indifferenza, impegno a ‘fare’ piuttosto che a ‘essere’, esagerato conformismo, individualismo estremo. Kets de Vries parla degli alessitimici come di analfabeti dei sentimenti.
[11] Reinterpretazione questa della teoria freudiana della sessualità repressa, collegando le paure infantili associate alla nascita ed allo sviluppo della sessualità con le paure dovute ai nostri limiti, alla nostra vulnerabilità ed alla nostra mortalità (G. Morgan, 2002). E ancora: Laddove l’analisi freudiana considera i valori della produttività, della pianificazione ed il controllo come espressioni di relazioni anali sublimate, il lavoro di Becker ci porta a spiegare questi stessi valori come il tentativo di preservare la vita davanti alla morte (ibidem).
[12] Guerini e Associati Editore.
[13] Vocabolo usato dagli psicologi adleriani, mentre gli analisti transazionali preferiscono parlare di ridecisione.
[14] Più attendibile potrebbe essere la valutazione da parte di un osservatore esterno, anche se, essendo per sua natura l’aggressività un comportamento episodico, non è facile da cogliere; meglio sarebbe un’osservazione del soggetto nel suo setting naturale e per un periodo sufficientemente protratto, o, in alternativa, una valutazione dell’aggressività in un setting sperimentale (esperienze di questo genere restano tuttavia limitate al campo della ricerca).
[15] Originariamente la scala di 50 item, era stata creata per valutare le capacità degli insegnanti di interagire con gli studenti.
[16] Gli atteggiamenti ed i comportamenti considerati (attuali, comprese le caratteristiche di tratto) sono specifici, mentre le situazioni che li provocano sono ‘universali’.
[17] In un tentativo di validazione sulla popolazione italiana del BDHI.
[18] L’atteggiamento ostile – tendenza a vedere gli altri come fonte di provocazione – e la tendenza a rimuginare.
[19] Versione e adattamento italiano a cura di A.L. Comunian. O.S., Firenze, 1992.
[20] La rabbia di stato è uno stato emotivo caratterizzato da sentimenti soggettivi di diversa intensità (da un moderato senso di fastidio o d’irritazione ad uno stato di furia e di rabbia), generalmente accompagnato da tensione muscolare e da attivazione del sistema nervoso autonomo.
[21] La rabbia di tratto è la disposizione a percepire un gran numero di situazioni come fastidiose o frustranti, e la tendenza a rispondere a tali situazioni con più frequenti manifestazioni della rabbia di stato.
[22] Lo stato del corpo influenza direttamente quello dell’animo.
[23] Fu full professor di Psichiatria, presso l’Università di Pennsylvania.
[24] Sconsigliato l’uso della posta elettronica in caso di lettere destinate a chi ha causato l’arrabbiatura, perché essendo troppo immediata non consente una rilettura critica di quanto si vuol comunicare!
Back to Top