Pare assodato che la dimensione spirituale sia tra le più trascurate della nostra cultura e il fatto che si ritenga che la religione si arroghi il diritto di averne in qualche modo il monopolio, crea un effetto di esclusione in chi credente non è. Eppure viaggiando, ci si imbatte spessissimo in realtà che dimostrano chiaramente quanto riti e consuetudini legati più o meno strettamente alla ricerca del sacro siano incredibilmente diffusi, e quanto, curiosamente, si somiglino tra loro pur in contesti diversissimi tra loro. Per esempio, possiamo sicuramente affermare che tra gli oggetti ‘sacri’ più venduti a tutte le latitudini si collochino i rosari.
Gli studi andando a rutroso hanno collegato il percorso ideale seguito dai modi di pregare nelle valli dell'Indo poi risalito verso Nord-Est, tra le vette del Tibet, le terre cinesi e infine l?oriente del Giappone e della Coea, per scendere verso Sud in quella che un tempo si denominava Indocina. Ecco che i 'cerchi con i grani' si ritrovano in larga parte del continente asiatico. I mistici sufi devoti di Rumi adottandoli li fanno entrare nel mondo islamico, ritenendoli perfetti per le pratiche tendenti all'esicasmo (tramite un'incessante preghiera si ricerca la perfezione dell'uomo nell'unione con il proprio Dio). Anche l'Occidente adotterà questo strumento di devozione di cui ormai esistono innumervoli varianti.
Nell’accezione cristiana, il termine deriva dal latino rosarium, ossia ‘rosaio/roseto’, e dato che la Vergine Maria è la Rosa delle rose, la Regina dell’Empireo di dantesca memoria, nessun’altra forma di preghiera Le sarebbe più consona. Anche se gli storici non sono tutti concordi (alcuni infatti attribuiscono l’origine del rosario a S. Benedetto, o al venerabile Beda, o ancora a Pietro l’Eremita), si è soliti attribuire a S. Domenico l’origine di questo modo di pregare: pare comunque che abbia iniziato a diffondersi nel XII secolo, per poi rinnovarsi nel XV a opera del Beato Alano de la Roche e di Giacomo Spenger. I Cristiani, nella recita del rosario, usano comunemente una catenella (simboleggiante il vincolo che unisce il fedele al suo Dio o alla Madonna) a forma di corona, in cui sono fissati gruppi di dieci grani, che servono per contare le Ave Maria, intercalati da un grano di maggiore dimensione, che indica invece il Padre Nostro; a seconda del giorno in cui la recita avviene, al contempo si medita sui misteri della vita di Cristo o della Vergine, suddivisi in gaudiosi, dolorosi, luminosi e gloriosi. La corona converge simbolicamente verso il Crocifisso, inizio e termine della preghiera, ma anche centro della vita cristiana, così come lo scorrere dei grani della corona allude al cammino spirituale del devoto.
Tra le tipologie di rosario cattolico in commercio, oltre alla classica corona, si può pregare tramite un rosario a forma di anello da indossare su un dito (una decina), un salterio (quindici decine [1]), un rosario francescano (sette decine), un rosario costituito solo da un gruppo di dieci grani, un rosario brigidino (sei decine, in cui i grani hanno colori diversi, ai quali corrispondono preghiere diverse: argentati per il Padre Nostro, dorati per il Credo e azzurri per l’Ave Maria). Una curiosità: esistono anche i rosari da combattimento, la cui storia risale al tempo in cui i soldati americani, che partivano durante la Prima Guerra Mondiale, potevano fare richiesta di un particolare tipo di rosario realizzato interamente in metallo con biglie di ottone. Il Soldier’s Rosary era corredato di un’immagine della Madonna e del Crocefisso del Perdono di San Pio X legato a particolari indulgenze. Padre Richard Heilman, un sacerdote della diocesi di Madison (Wisconsin), apportò sostituì la medaglia mariana con la Medaglia Miracolosa e aggiunse la Medaglia di San Benedetto.
Strumenti di preghiera analoghi si trovano comunque pure fuori dalla Chiesa latina: i monaci greci, per esempio, fanno uso di una cordicella di cento nodi, per contare le genuflessioni e i segni di croce, i monaci nei monasteri sul monte Athos per contare le preghiere si avvalgono di komboloi e komboskini vengono ancora oggi usati per contare le preghiere (spesso costruiti con materiali poveri: legno, le conchiglie, le nocciole e i noccioli di olive). In India il rosario si chiama aksha-mâlâ [2], cioè ‘ghirlanda di aksha’, attribuendo a questo termine dai molteplici significati essenzialmente quello di ‘asse’. I Musulmani invece, sempre a scopo devozionale, si servono del sebhah o tasbih, un nastro in cui sono infilate 33 o 66 o 99 pallottoline, corrispondenti al numero degli epiteti di Allah: zikr, è pertanto la pratica di ripetere i 99 ‘meravigliosi nomi di Dio’ (al-asmâ’ al-husnâ [3]); Allah, l’Impari, ama le cose dispari. Anche in Estremo Oriente si ritrovano oggetti simili, tanto che S. Francesco Saverio (1506-1552) si meravigliò di trovarli usati comunemente, per esempio, dai Buddhisti del Giappone.
La Corona del rosario è anche simbolo della catena dei mondi [4]; nella Bhagavad-Gîtâ (VII, 74) si legge: 'In me tutte le cose sono infilate come una collana di perle su un filo'; il filo (sûtra) penetrando, lega tra di loro tutti i mondi e come un ‘soffio’ li sostiene e li fa sussistere. Generalmente la ‘catena dei mondi’ è raffigurata in forma circolare, così da poter essere percorsa non solo in modo continuo dall’origine fino al termine, ma anche indefinitamente: se l’origine e la fine si ricongiungono e coincidono, sono in realtà una sola e identica cosa, situandosi nel principio stesso della manifestazione.
Il numero dei grani del rosario varia secondo le tradizioni, ma è sempre un numero ciclico: per esempio nell’Islam, come già è stato detto, è 99, ossia 100 meno 1, cioè, manca un grano per ricondurre la molteplicità all’unità. Questo grano mancante, che si riferisce ovviamente al ‘Nome dell’Essenza’ si può trovare solo in Paradiso e corrisponde al punto di unione delle estremità della ‘catena dei mondi’, punto che non appartiene alla serie degli stati manifestati. Il Paradiso diviene così la totalità della manifestazione, ossia l’unico grano del rosario veramente esistente, riassorbendo in sé tutti gli altri 99.
In India, nel Tibet e nell’estremo Oriente invece il numero dei grani del rosario è il più delle volte 108, cifra che non rappresenta il numero 108, ma la realtà (uno: la verità ultima; lo zero al centro: lo stato di samadhi [5] otto: la natura creativa); inoltre
sia nella tradizione induista che in quella buddhista, 108 è un numero ricorrente (indica i nomi di molte divinità e di saggi indù; rappresenta l’universo del sistema vedico; 108 sono le Upanishad; 108 sono i peccati nel buddhismo tibetano, etc). I grani perlopiù sono costituiti da semi di piante indiane (loto, bodhi, rudraksha) oppure in legno (sandalo, tulasi) o ancora di giada o ambra: ecc…. il grano diverso in più, che forma l’estremità superiore, viene chiamato Meru (come il sacro monte [6]), e quando si ripete il mantra [7] bisogna arrivare fino a esso senza mai attraversarlo, poi ritornare indietro, e così via. Un’altra curiosità è costituita dal modo in cui questo tipo di rosario deve essere sgranato con la mano destra sempre in senso orario [8]: deve essere trattenuto sopra il dito medio (la purezza) tra il pollice (la divinità) e l’anulare (l’azione), per enfatizzare a ogni passaggio la fusione con il divino (l’indice, che rappresenta l’uomo e il mignolo, simbolo dell’inerzia, non devono pertanto venire a contatto con il mâlâ). Il tutto vuole intendere che si trascende il mondo dell’illusione, per procedere verso la coscienza dell’unità.
È opinione del Lama Ole Nydahl che sia indicativo di stile riuscire a contenere il mâlâ nel pugno: se è troppo grande potrebbe essere un segno di orgoglio. Anche in Giappone, i fedeli pregano con un rosario composto di 108 grani; le interpretazioni della scuola tradizionale buddhista Nichiren, attribuiscono al numero la formula: 6 sensi [vista, udito, olfatto, gusto, tatto, pensiero] x 3 momenti temporali [passato, presente, futuro] x 2 condizioni dell'anima [pura o impura] x 3 manifestazioni dei sentimenti [amare, odiare, indifferenza] = 108
Colpisce sicuramente la costanza della ripetizione della preghiera che si riscontra a tutte le latitudini, una sorta di insistenza, quasi a cercare di convincere Dio, anche tramite un continua elevazione di lodi a Lui dirette. Che si tratti di formule mantra o invocazioni, in ogni caso, è come se l'orante creasse un 'tempo continuamente nuovo' e qui è pertinente citare la 'quaestio' dell'efficacia simbolica definita per la prima volta da Levi-Strauss. Riti e preghiere hanno per chi li pratica una reale efficacia, salvifica si può dire, elevando lo spirito, facilitando l'ascesi, ma anche la guarigione.
Molto interessante anche la riflessione sulle implicazioni corporee legate alla ripetizione di giaculatorie e formule. In alcune religioni sono più evidenti certi movimenti compiuti durante la preghiera che diventano quasi automatismi guidati che si fanno ondeggiamenti, genuflessioni, danze rotatorie (si pensi ai dervisci), respiri collettivi, fino talvolta a sfociare addirittura in uno stato di trance. Pregare è innegabilmente un’esperienza comune a larga parte dell’umanità non tanto come “presa di posizione”, quanto di manifestazione di uno stare al mondo, di un esserci.
Ciò che sottende ogni singola preghiera non può che essere, dunque, una complessissima costruzione culturale dove individuo e collettività montano un sistema simbolico-pratico potente. Tutte le religioni non a caso prevedono uno strumento per pensare, cioè una formula o una preghiera la cui ripetizione conduce ad uno stato di liberazione spirituale, di purificazione, di meditazione, e acquistarlo per sé, o portarlo in dono da un luogo sacro, sicuramente lo ammanta di un’aura mistica particolare.
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