Spezie diverse possono aiutarci per problemi diversi, – ci spiegò l’Antica dopo averci insegnato i rimedi più comuni.
Ma per ogni persona esiste una spezia speciale.
No, non per voi – le maghe non devono mai far ricorso alle spezie a fini personali – ma per tutti gli altri, per quelli che vengono a cercarvi, c’è. Viene chiamata mahamul, la spezia originaria, ed è differente per ciascuno. Mahamul per la buona fortuna, per il successo e la felicità, per allontanare il malocchio...
(da 'La maga delle Spezie' di Chitra Banerjee Divakaruni)


Questa è la storia mai raccontata del coraggioso Principe Paul della dinastia degli Atreides (quella che non è narrata nei fotogrammi della celebre pellicola cinematografica di D. Lynch intitolata
Dune).
In una galassia infinitamente lontana, sul pianeta Arrakis, si combattevano guerre cruente
per la conquista del melange, la Spezia capace di far viaggiare attraverso il tempo e lo
spazio: chiunque detenesse il potere su questa mirabile e portentosa sostanza di
conoscenza, inequivocabilmente, controllava l’Universo intero. Ecco che tra le dune di
sabbia luccicante come un vetro triturato, alla luce tenue di un chiarore esile e acerbo, una
dolcezza sonnolenta calava sugli occhi stanchi del principe guerriero. E Paul lentamente si
ubriacava del morbido trascorrere delle costellazioni, in quell’aria della sera inoltrata,
gravida delle fragranze persuasive del melange. Finalmente le lente dita del sonno gli
chiusero le palpebre, insinuandosi nei suoi pensieri: gli parve di vedersi aggirare smarrito
in una zona neutra, quasi un confine tra il mondo dei vivi e la terra dei morti. I suoi occhi
divenivano sempre più lontani, come quelli delle statue, mentre nelle sue orecchie
permaneva la risonanza come d’una voce che non fosse più sua. Ingannevoli folate di
ricordi lo stupivano e lo rapivano. Improvvisamente fu per lui come attraversare un paese
su una passerella che collega due sogni.
Non era quello il tempo che aveva lasciato... Graffiato dalla sorpresa era obbligato a
ricordare un passato misterioso e la rimembranza si snodava nella narrazione che faceva a
se stesso delle sue precedenti vite. Nacque. Rinacque. Assurdamente questo suo
attraversare i millenni, si mescolava e si confondeva con le vicende avventurose sempre
vissute sulla Via delle Spezie.
Si svegliò vedendo il suo mare. Il sole era tondo, bello e generoso e la favolosa Terra di
Punt si duplicava in un pulviscolo dorato. Paul Atreides nella sua prima vita fu un semplice
marinaio: stentava a credere a questa verità, eppure era davvero stato un egizio al servizio
della reale spedizione voluta dalla sovrana Hatshepsut, la prima dei nobili. Si diceva che
gli dèi avessero posto su di lei la loro magica protezione: ottenuto così il governo di un
regno senza confini e la promessa di grandi vittorie, la Signora dei diademi, Re dell’Alto e
del Basso Egitto, si preoccupò di farsi eternare quale sovrana saggia e lungimirante,
amante della pace e premurosa del benessere dei suoi sudditi. E fu così che l’Egitto
conobbe un fiorire di commerci con i mercati stranieri posti sia a Oriente, sia a Sud. Ma la
regina-faraone andava particolarmente fiera soprattutto di una spedizione inviata nel
Paese di Punt, tanto da tramandarne i fatti salienti nel porticato sud della grande terrazza
intermedia del suo magnifico tempio. Amon in persona, Signore di
Karnak, aveva esortato la sua diletta figlia a inviare cinque navi per riportare da Punt gli
aromi di cui quella contrada era ricca: incenso, mirra, terebinto, ginepro e tutte le spezie
necessarie per i servizi divini e di imbalsamazione. A quel tempo gli Egizi chiamavano
“terrazze dell’incenso” i Paesi dai quali provenivano le preziose essenze, le piante
balsamiche, le spezie inebrianti dalle quali si traevano olii profumati, cosmetici odorosi,
farmaci indispensabili e le bacche aromatiche da bruciare durante le sacre cerimonie. Ed
ecco, nell’anno 1502 a.C., le cinque navi reali viaggiare sul Nilo, mentre il marinaio del
nostro racconto viveva stupito quell’esperienza insolita e audace. Ogni cosa su cui gli si
posava lo sguardo era vergine, sconvolgente, voluttuosa e una musica di sistri lo
pervadeva, come pure gli odori: quello dolciastro del grande fiume, quello asprigno della
sua gente serena, quello polveroso e speziato dell’aria tiepida di quei giorni. Si bagnava
della linfa di quel Paese che amava, proprio come il Nilo che effonde l’acqua, quando nella
stagione dell’inondazione prende possesso dei campi. Gli equipaggi infine presero terra in
un Paese sabbioso lambito dal Mar Rosso, territorio fertile dalla vegetazione tipicamente
composta da palme, sicomori e arbusti di incenso: gli inviati egiziani offrirono, in cambio
degli aromi, armi e gioielli all’alto e snello re Parehu e alla sua davvero grassa e deforme
consorte Ati. L’esito felice di quegli scambi di doni permise di caricare le stive dei battelli
con grande abbondanza, non solo degli alberi delle essenze con le loro radici, ma anche di
legni preziosi, di ebano e di oro e collirio nero. Non mancavano poi scimmie e
babbuini, pelli di pantere del Sud, levrieri e gente indigena. Mai una ricchezza tanto
insolita era stata offerta ad alcun re e le labbra di Hatshepsut, sottili e morbide di
inquietanti sorrisi, si atteggiarono certo in un impercettibile sorriso di compiacimento.
Paul Atreides viaggiava ancora stordito dalla fragranza del melange, lungo quegli invisibili
fiumi che sono formati dai pensieri più intimi: mille anni erano trascorsi da quella sua
prima felice vita. Rinacque mercante nabateo, astuto, ricco e ospitale. Amava infatti
circondarsi di amici nella sua sontuosa dimora nella capitale del regno: Petra, la città rosa.
Al seguito di una carovana giunta dalle terre baciate dal Mediterraneo, entrarono in città
viaggiatori inconsueti: un cartografo fenicio, un astronomo di Alessandria e un giovane
studioso delle Isole, che avrebbe dato origine a una illustre dinastia di medici, quella degli
Asclepiadi. Il mercante non poté trattenersi dall’invitare questi tre interessanti uomini e,
dopo una cena a dir poco generosa, le chiacchiere si sciolsero in un piacevole conversare.
Paul, che a quel tempo aveva ovviamente un altro nome, offrendo l’immancabile infuso
dorato, simbolo dell’accoglienza, fu felice di abbandonarsi al ruolo di narratore,
rispondendo così alle molte domande postegli dai suoi convitati, assetati di conoscenza.
Raccontò allora che dalla stirpe di Abramo e Ismaele nacque Nabayot: la sua tribù – quella
dei Nabatei, appunto – allevava cammelli, cacciava e predava. Avendo però la fortuna di
vivere in un territorio tanto fiorente, posto nel punto strategico di incontro tra le principali
vie commerciali d’allora (la “strada dei Re”, che collegava il Nilo a Babilonia e che a
Damasco entrava in contatto con la “via della Seta” – quella che portava in Cina – e la “via
dell’Incenso”, che collegava Petra al regno di Saba nella mitica Arabia Felix), fu facile per
quei nomadi saccheggiare le numerose carovane di passaggio. Ma fu più astuta l’idea di
farsi pagare una tassa per ottenere la protezione nabatea. Da qui il controllo
dei commerci fu inevitabile e il transito di oro, perle, incenso, nardo, cannella, zafferano,
pepe nero e verde, cinnamomo, cassia, coriandolo e mirra portò la ricchezza. Petra divenne
capitale di quell’impero: vi era acqua in abbondanza e le provviste non mancavano mai.
Era sicura e imprendibile, racchiusa in una fortezza naturale fantastica e nascosta. Il
mercante consigliò ai suoi ospiti ammirati di vagabondare da soli per le vie di quella città
unica, perché così avrebbero potuto portare nelle loro rispettive patrie la testimonianza di
quella preziosa magnificenza. E l’astronomo fu affascinato da quel cielo azzurro che pareva
diluirsi in infinitesime particelle di colore, che restavano impigliate nelle montagne. Il
cartografo era ammutolito per la vitalità sfolgorante di quella cosmopolita capitale,
fiabesca come un palazzo di cristallo rosato. Il medico invece era sopraffatto dalla bellezza
unica di quella profusione di case decorate e dal contrasto tra il deserto circostante e quella
gente raffinata. E pensò che davvero tutti i toni delle spezie tingevano quella città-fortezza
ardente di sole, vitrea al tramonto, ciprea all’alba, in uno scenario di fiammate d’arancio e
d’oro rosso, di porpora e amaranto, di scarlatto e di vermiglio, del colore giallo dello zolfo e
del sole allo zenith. Il mercante si soffermò davanti al disegno di una spirale che ornava il
muro della sua dimora e guardandolo si accorse che il tempo man mano perdeva
significato...
Il melange faceva davvero star bene Paul degli Atreides dentro quelle illusioni delle sue
precedenti vite, anse della storia. Continuava a respirare la Spezia voluttuosamente e
sempre più aveva consapevolezza di appartenere anche ad altri mondi, ad altre geografie,
travasato in un racconto da un altro racconto. La sua visione lo portava ora in una Venezia
rigogliosa, ai tempi del massimo commercio del pepe e dello zenzero, delle noci moscate e
della cannella, della canfora e dei chiodi di garofano. La loro importazione ed
esportazione costituì allora lo stimolo più forte alla ricerca della via marittima per le Indie
e la fortunata avventura di Vasco de Gama, portoghese senza riserve, assicurò nuovi
sbocchi e nuovi trattati. Ma questa è ancora un’altra storia, che il Principe doveva ancora
raccontarsi.
***
l tocco aperto della personalissima pittura di Vittore Carpaccio, artista veneziano, effonde
dalle sue squisite rappresentazioni dei velieri all’ancora, che ci è dato oggi di ammirare
all’accademia di Venezia, nelle tele del ciclo di sant’Orsola. Grazie a questo “fotografo”,
possiamo così immaginarci con quali imbarcazioni si commerciavano le Spezie. È il
1514. L’eleganza delle caracche, orgogliose dei loro alti e snelli tre alberi e la magnificenza
di quelle superbe velature morbidamente incurvate dal vento, certo dava lustro alla
composta flotta della Marina Mercantile della Serenissima. Nessuno dimentica infatti che
la città dei Dogi fu l’unica città-stato italiana ad aver vissuto per gran parte della sua
affascinante storia un intenso rapporto di scambio con le contrade più esotiche e lontane: il
fiuto incomparabile per i commerci, l’abilità astuta delle alleanze politiche e l’arroganza
temibile della spada crearono insieme quel capolavoro economico e militare da cui derivò
la ricchezza artistica di Venezia intera. La Repubblica del leone alato si mostrava
all’Europa contemporanea prospera e opulenta, creatura d’aria e d’acqua, ancor oggi del
resto invidiata nel mondo: Petrarca addirittura per descriverne la straordinaria notorietà
scriveva che i vini di Venezia scintillavano nei bicchieri dei pescatori bretoni e che miele
veneziano si serviva persino nelle case russe... La forza di Venezia tuttavia non stava nei
suoi policromi vetri soffiati o nelle pur magnifiche sete e lane o, ancora, nel sale prodotto
nella città stessa, ma piuttosto nella vera e propria arte di saper acquistare e trasportare
merci ricercate provenienti soprattutto da terre lontane. Così, per le calli vivaci, sulle
gondole affusolate, sui ponti gettati a caso tra i vari quartieri, era tutto un viavai di
forestieri e Rialto – il centro dei traffici – pullulava di mercanti ebrei, olandesi, toscani,
francesi, genovesi e tedeschi (questi, per primi, aprirono un fondaco per depositarvi le
merci in transito). La domanda di spezie era allora relativamente più alta che non ai giorni
nostri, per il posto straordinariamente importante che rivestivano in cucina: pepe e noce
moscata, zenzero e cannella, zeodaria e radice rossa di galanga (dalla Cina), chiodi di
garofano e za’faran (1) erano infatti assai ricercati in un mondo che conosceva ben poche
altre maniere per conservare le carni o stimolare le monotone e parche pietanze d’allora. I
trattati medici e i ricettari poi
decantavano tutti ampiamente le virtù di questi esclusivi
prodotti: se il pepe era considerato “buon antidoto contro i veleni”, la noce moscata era
“buona contro le lentiggini”; se la cannella “calmava le irritazioni intestinali”, i chiodi di
garofano “riscaldavano il cuore”... Ma i centri di produzione di tante meraviglie erano
purtroppo soprattutto nelle Indie, nell’arcipelago indonesiano e nella Cina meridionale,
tutte località in cui solo eccezionalmente si spingevano dall’Occidente i missionari e
qualche audace mercante. Così di regola erano i commercianti malesi e arabi a
trasportare per via mare spezie e zucchero di canna, essenze profumate e robbia colorante,
gommalacca e gomma adragante, minerale d’allume (2) e ancora sete, perle e pietre
preziose. Le raccoglievano nei loro porti del Golfo Persico o del Mar Rosso e le
trasportavano con le carovaniere ai limiti del mondo cristiano. Un ricco centro di
smistamento fu certo Costantinopoli, dove i bizantini riunivano quei costosi tesori da
Trebisonda (sul Mar Nero) o da Antiochia (sul Mediterraneo musulmano) o ancora da
Alessandria e Laodicea. E così pian piano l’accesso a quei mercati d’Oriente dai nomi tanto
fiabeschi favoriva intanto la conoscenza tra popoli, forme di governo e religioni diverse.
Venezia si inseriva in questo giro d’affari con sempre maggior prepotenza, tanto che fu
introdotto l’uso quotidiano di diffondere in parecchie copie piccole cedole contenenti i
prezzi medi delle spezie sul mercato di Rialto; anzi le spezie stesse venivano usate come
mezzo di pagamento, se veniva a mancare il denaro contante. Per il loro commercio di
piazza all’ingrosso, riservato ai grandi banchieri più che agli speziali, vigeva addirittura il
sistema dell’incanto: a Rialto era tutto un sussurrarsi all’orecchio offerte segrete... e i
“messeti del pepe” (vero oro nero del tempo) divennero una categoria apposita di sensali di
nomina statale!
Ma dal 1498 tutto cambiò.
Come una sferzata si diffuse tra i rii e le calli della Serenissima una ferale notizia: tre navi
portoghesi (la Sao Gabriel, la Sao Rafael e la Berrio), partite alla ricerca delle Isole delle
Spezie al comando di un ammiraglio trentasettenne, tale Vasco de Gama, erano sbarcate ad
Aden e Calcutta. La rotta era davvero lunga e pericolosa ma permetteva finalmente a
Lisbona di evitare le mediazioni veneziane e musulmane.
Entro il 1515 i portoghesi, navigatori privi di scrupoli ma audaci, avevano installato
fortificate stazioni commerciali nelle più strategiche località di quell’impero che si
estendeva ormai dall’Atlantico al Mar della Cina: dall’Africa orientale, da Ormuz, da
Cochin e Cananor, dalla dorata Goa, dalla Malacca e dalle Molucche... venivano
letteralmente drenate le ricchezze più ambite dall’Europa e sui moli di Lisbona si
accumulavano splendidi e odorosi tesori.
Facendo un passo indietro, ci si imbatterà tuttavia in una curiosità: l’uomo che catalizzò le
energie e le ambizioni del Portogallo non partecipò mai ad alcun viaggio di esplorazione.
Enrico il Navigatore, erudito uomo di lettere, celibe e cinto di cilicio sotto gli abiti
principeschi, spirito tormentato e grande conoscitore geografico del sapere antico, fu il
patrocinatore di innumerevoli spedizioni, coniugando la ricerca di un mondo ricco con una
visione da crociato della missione cristiana. Con il suo motto “il desiderio di far il bene” si
prodigò così per seminare quel terreno che il suo successore re Manuel  (1495-1521) avrebbe poi
coltivato. Fu durante il regno di questo monarca che Vasco de Gama riuscì infatti a
proiettare il minuscolo Portogallo nella più grande avventura marinara della su
a storia.
Le armi e i Capitani rinomati
che dalla Occidua sponda Lusitana
per mari mai dapprima navigati...
e anche le memorie gloriose
di quei Re che operaron propagando
Fede e impero...
cantando esalterò per ogni parte
se a tanto mi varran l’ingegno e l’arte. (3)

Così poetò Luís Vaz de Camões neò primo canto de 'I Lusiadi', e ancor oggi arrivando in Portogallo ci si sente davvero dentro un desiderio di navigare verso l’ignoto, di partire per partire, di ampliare le barriere geografiche: le ricchezze delle colonie, la voglia di scoperte, l’entusiasmo di seguire il Tago
che s’abbraccia al pieno Oceano, nel punto in cui è conosciuto come “mare di paglia” per la
sua traccia color ocra... non furono che la conseguenza di questo eterno sogno. Stando al cospetto del monumento ai Navigatori di Lisbona, si ha l’impressione di vedere che dall’aria
che brilla come d’un folto pulviscolo d’oro quasi resuscita la figura pensosa di quel re Manuel, innamorato del mare, inseparabile compagno della storia portoghese. E chissà
quante volte nei suoi occhi si saranno riflessi i colori vivaci delle vele quadre delle caracche
all’ancora lungo l’estuario del Tago, arrotondate da una brezza sempre carica d’attesa. Da
quella costa del Mare Oceano Bartolomeo Dias aveva aperto la via “oltre” il fatidico Capo
delle Tempeste, ribattezzato Capo di Buona Speranza, come per esorcizzare la paura che da
sempre incuteva. Vasco de Gama, dieci anni dopo s’apprestava a navigare per ventisettemila
magnifiche quanto impervie miglia d’acqua salata, fino all’India, suadente reame esuberante di
spezie. Stupore: belle spiagge e rigogliosi palmizi. L’aria pregna della fragranza di odori
intensi e inebrianti; indigeni scuri di pelle che appartenevano a una cultura antica,
popolata di dèi dalle molteplici braccia che detenevano un potere illimitato. Donne che con
le loro saari multicolori bilanciavano con grazia sul capo pesanti giare d’acqua dolce.
Elefanti che destavano soggezione e rispetto e, lungo le banchine dei porti straripanti di
folla, navi arabe, cinesi, malesi, birmane che imbarcavano spezie. E da Calicut, crocevia
delle rotte commerciali tra Oriente e Occidente, via sulla costa del Malabar, a Goa e poi a
Malindi, Mozambico e, regolandosi con le stagioni dei monsoni, di nuovo il Capo di Buona
Speranza, Capo Verde, le Canarie, il Marocco... Dopo un’assenza di due anni infine il
rientro in patria. Il re era euforico, tanto da far coniare una moneta d’oro commemorativa
da dieci crusado e da inviare opuscoli a tutte le capitali europee. A Belem, vicina alla foce del
Tago, fece anche costruire una magnifica chiesa che i portoghesi avrebbero visitato con
profondo affetto. L’Europa intera seppe per bocca di quel re che il Portogallo, scoprendo la
rotta per l’India, stava ormai per assicurarsi il monopolio diretto delle spezie. Con il
finanziamento dei banchieri fiorentini, de Gama nel 1504 portò in Europa 5.000 tonnellate
di pepe e 35.000 quintali di altre spezie: i guadagni si aggiravano attorno al 400%! Lisbona
accentrò i commerci del Nord Europa, mettendo momentaneamente in crisi la
Serenissima. I profitti continuavano ad affluire copiosi e intanto un altro portoghese,
Pedro Alvares Cabral, in sei settimane era arrivato in Brasile, riportando anche lui un
superbo carico di spezie. Ad Anversa i lusitani fondarono una Borsa per regolare le vendite,
mentre gli empori di quelle colorate e odorose “monete” si moltiplicavano ormai
all’infinito. E re Manuel divenne “Re per grazia di Dio, del Portogallo e dell’Algarve,
Signore di Guinea in Africa, Signore della Conquista, della Navigazione e del Commercio
d’Etiopia, d’Arabia, della Persia e dell’India”. I rivali invidiosi ne abbreviarono il titolo in
“il re droghiere”!
Chiunque oggi a Lisbona visiti quell’incomparabile opera d’arte che è il chiostro del
convento dos Jerònimos, potrà leggere nei perenni e misteriosi decori in puro stile
manuelino l’apologia di quell’era di grandi scoperte geografiche e potrà rendersi conto di
come persino la costruzione delle chiese fosse allora una gigantesca operazione di
carpenteria navale. Lisbona non guarirà mai da quella sua leggera febbre che l’anima e la fa
apparire vera città narrativa, come se vi stesse sempre per accadere qualcosa... e
respirando la sua atmosfera non ci si potrà mai sottrarre alla provocazione di ritrovarsi con
la mente incendiata dai miraggi incantevoli suggeriti a ogni sguardo, verso quel Mare che
portava al magico Mondo delle Spezie.

© all rights reserved
note:
1. Ossia “giallo”; diffuso dagli Arabi in Spagna fin dal IX sec.
2. Usato per fissare le tinture.

bibliografia:
• AA.VV., I grandi navigatori, volumi: Gli esploratori, La Via delle Indie, I Veneziani, 1988, Mondadori
• Enciclopedia Italiana Treccani, alla voce “spezie”
• G. Simonetti, Spezie ed aromi, 1990, Mondadori

Back to Top