William Ernest Henley, nella sua lirica 'Invictus' parla di anima, e lo stesso fa Guglielmo Petroni, quando dice che 'Il primo passo verso la vita non si può fare se non partendo dal fondo della propria anima'. In questo tempo inquieto e di smarrimento, trovo importante riflettere sull’anima, vero e proprio diaframma per lo Spirito vitale, immortale, capace di provare emozioni e di garantire autonomia e libertà di scelta, che fin dall'antichità ha subito trasformazioni semantiche e di contenuto, finendo per coincidere con mente e coscienza, due dei nomi attribuiti a quella natura superiore che si ritiene operare nelle nostre decisioni. L'anima esperisce sentimenti ed emozioni, li mostra nel corpo, vive i desideri e sogna come realizzarli. È ad essa, come capacità di essere attraverso ciò che abbiamo vissuto e ci è stato trasmesso, che ci si rivolge quando si scrive.
Se Giacomo Leopardi, nel 1824, riteneva che 'Quando noi diciamo che l'anima è spirito, non diciamo altro se non che ella non è materia, e pronunziamo in sostanza una negazione, non un'affermazione', Edoardo Boncinelli oggi appunta l'attenzione sull'anima, essenza della vita, quale espressione di un processo presieduto dal genoma, mediante il quale ci è consentito di gestire l’energia e l’informazione prese dal mondo. Sta di fatto che fin dall’antichità se ne discute. Da appassionata di Egittologia quale sono, mi ha sempre colpita il fatto che l’anima fosse una sostanza molto più fluida e sfaccettata rispetto alle credenze più attuali. Il Sé era infatti composto da numerose parti distinte, che potevano sussistere anche in forma autonoma (non mi risulta tuttavia che venne mai stilata una vera e propria lista che li comprendesse tutti in un’unica dottrina).
Nell’antico Egitto l’individuo era un sistema complesso formato da un corpo materiale – khet, parola che significa anche carne – e da cinque elementi spirituali: ib, ka, ba, ren e shut.
La convinzione che fondava quella straordinaria civiltà era che per poter sopravvivere alla morte del corpo che li ospitava, questi elementi avevano bisogno di una nuova dimora che durasse per sempre e così, con la pratica della mummificazione, lo stesso corpo che li aveva ospitati in vita, il khet, sarebbe divenuto sah, ovvero nobiltà o dignità, immagine eterna e immutabile dell’individuo. Il corpo era dunque la dimora delle anime: se si fosse decomposto, le anime del defunto non sarebbero sopravvissute e il loro proprietario avrebbe subito una seconda morte nell'aldilà, definitiva e senza ritorno.
Il nome proprio, ren, conteneva l’essenza di una persona: non è un caso che tutti gli oggetti del corredo funerario – dai sarcofagi alle statue agli oggetti più minuti – portassero trascritto il nome del defunto: nominare una persona per gli egizi significava renderla viva. Non si sarebbe mai davvero morti, fintanto che il proprio nome fosse stato ricordato. Inoltre, conoscere il vero nome di qualcuno poteva eventualmente sottometterlo a proprio potere, come avviene in molte leggende legate agli hekau (incantesimi). Tutti i Neter, le divinità egizie, possedevano un nome segreto che ne racchiudeva la potenza.
Il cuore, jb, si formava nel nuovo nato a partire da una goccia di sangue presa dal cuore materno al momento del concepimento. Conteneva sentimenti e intenzioni, tanto che dopo la morte sarebbe stato pesato (rituale della psicostasia) dal dio Anubi: se fosse stato più pesante di una piuma di maat, che rappresenta l’ordine e la verità, sarebbe stato dato in pasto alla mostruosa Divoratrice. In uno dei miti della creazione, Ptah avrebbe immaginato il mondo nel suo cuore per poi crearlo pronunciando i nomi degli esseri e delle cose che prima aveva solo pensato.
Il ba era la parte dell’animo che esisteva nel tempo di costante movimento e rinnovamento chiamato neheh (tempo connesso al viaggio quotidiano di Ra, il dio sole, che ogni notte sembra morire, ma poi si rinnova ad ogni nuova alba; un tempo ciclico, come quello delle stagioni o dell’avvicendarsi delle costellazioni, e rappresentava una pienezza vitale inesauribile, che avrebbe trovato un nuovo inizio anche nonostante una morte apparente); era uno degli aspetti nei quali una persona poteva manifestarsi nel corso della sua vita sociale e naturale. Ad es., le manifestazioni degli dèi sulla terra (sia negli elementi naturali che nelle statue che li raffiguravano) erano i ba degli dèi. Ba era anche il modo in cui si veniva percepiti dagli altri: oggi parleremmo di “immagine” o “reputazione”. Da ciò segue che ogni effetto risultato dall’azione di una persona veniva considerato parte del suo ba. Post mortem, il ba del defunto avrebbe seguito il dio solare nel suo viaggio attraverso i cieli, ma solo se costui aveva vissuto in modo virtuoso. Era insomma la personalità di qualcuno, ciò che lo rendeva unico, e veniva raffigurato come un uccello dotato di testa umana.
Il ka era invece la parte del sé esistente nel tempo chiamato djet (appartenente al riposo eterno di Osiride: Wennefer, Colui che rimane intatto o Colui che permane nella perfezione; djet, la continuazione di ciò che era già stato completato in passato: come le piramidi, costruite secoli fa, ma che ancora si ergono nella piana di Giza, o come un corpo che si conserva integro grazie alla mummificazione). Avendo a che fare con la stasi e la permanenza del djet, associata all’oltretomba e alla fissità del suolo sotto i piedi, il ka era considerato la parte del sé che sarebbe rimasta per sempre, immune al cambiamento. Dopo la morte, permaneva nella memoria dei cari, nelle tombe o nei monumenti commemorativi, così come anche nei corpi mummificati; poiché sopravviveva doveva essere alimentato con cibo e bevande. Inoltre, il ka poteva essere raffigurato anche come una figura doppia del faraone o del defunto, una sorta di gemello che avrebbe vissuto nel reame imperituro.
Diversamente dalla nostra percezione moderna, dove il Sé è di solito un concetto univoco e talvolta isolato, per gli egizi esso esisteva solamente nel rapporto con gli altri, e non aveva una reale esistenza individuale al di fuori di questo. Come il ba, anche il ka quindi era un fenomeno che poteva essere descritto a livello sociale.
Il ka si ereditava di padre in figlio, e lo vediamo nel mito della creazione di Memphis, dove il dio Atum tramandò il proprio ka ai figli Shu e Tefnut mentre li abbracciava. Questa visione era mantenuta anche nel geroglifico del ka, che appare come un paio di braccia tese per stringere in un abbraccio. Allo stesso modo, per gli egizi l’espressione “raggiungere il ka di qualcuno” significava ricongiungersi a un antenato nell’aldilà.*
L’ombra, sheut, conteneva una parte della persona che la proiettava. Talvolta i faraoni avevano persino una scatola dove veniva contenuta e conservata una parte della loro ombra. Il geroglifico shut contiene il disegno di un parasole.
khet: il corpo, deputato ad operare durante la vita terrena. Viveva fisicamente le esperienze di vita, come amare, lavorare, essere la salute o sopportare la malattia.
Akh, il Luminoso, si acquisiva solo nell’aldilà (geroglifico di un ibis con un ciuffo).
All’interno della tomba poteva accadere uno strano fenomeno: dopo un po’, il corpo di un defunto innocente e virtuoso cominciava ad emanare luce. Meno erano i peccati, più intensa si faceva la luce: un modo poetico, forse, degli Antichi Egizi, di spiegarsi il fenomeno dei fuochi fatui.
All’interno della tomba poteva accadere uno strano fenomeno: dopo un po’, il corpo di un defunto innocente e virtuoso cominciava ad emanare luce. Meno erano i peccati, più intensa si faceva la luce: un modo poetico, forse, degli Antichi Egizi, di spiegarsi il fenomeno dei fuochi fatui.
Dall’Antico Egitto al nostro tempo, grazie a numerosi pensatori, tra i quali spicca l’apporto di C.G. Jung, sappiamo che l’individuazione ha come meta lo sviluppo della nostra più autentica personalità; divenire chi veramente siamo, differenziandoci dagli altri se pur rimanendone in rapporto. Il processo individuativo è un processo autonomo che si sviluppa attraverso un confronto sia con il mondo esterno che con il nostro mondo interno, il mondo degli archetipi: se la prima tappa consiste nel prendere coscienza dell’Ombra, il nostro lato oscuro, ma di egual sesso, la seconda è prendere coscienza dell’immagine dell’anima attraverso la quale scopriamo l’elemento eterosessuale della nostra psiche.
Mentre la Persona** funge da mediatrice tra l’Io e il mondo esterno, l’anima e l’animus mediano tra l’Io e il mondo interno, stabilendo un collegamento con le profondità dell’inconscio: Jung adottò i termini Anima (l’immagine femminile presente nell’uomo; in quanto eros fornisce alla coscienza maschile relazione e connessione) e Animus (l’immagine maschile nella donna; in quanto logos fornisce alla coscienza femminile riflessività, ponderatezza e conoscenza) per indicare le immagini dell’anima corrispondenti alla controparte sessuale di ogni individuo, dato che in ogni uomo esistono elementi “femminili”, così come in ogni donna esistono elementi “maschili”, elementi che nello sviluppo della personalità devono essere portati a coscienza: l’uomo pertanto deve diventare conscio della propria Anima e la donna conscia del proprio Animus.*** Comprendere la propria Anima o il proprio Animus è indispensabile per non cadere sotto le loro influenze archetipiche e per non essere manipolati da volontà a noi estranee. Se rimangono a livello inconscio rischiano di diventare complessi autonomi destabilizzanti, mentre se a quello di coscienza diventano elementi vivificanti che aggiungono significato alla vita.
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