La sfida della giustizia riparatrice
Esiodo, nella Teogonia (vv. 901-902), narra che Zeus ebbe dalla ‘splendida’ Themis come figlie le Ore: Eunomia, l’ordinamento legale, Dike, la giustizia, e la ‘fiorente’ Irene, la pace. Loro compito era quello di curare le opere dei mortali. Fin dall’antichità dunque quello della Giustizia (1) è stato un tema assai dibattuto; Aristotele (2) la intendeva come ricerca dell’equilibrio e dell’equità in rapporto a noi stessi e in rapporto agli altri. Sua è anche la distinzione tra giustizia distributiva e giustizia commutativa, che rispettivamente prevedono una distribuzione sociale dei beni e delle risorse in base ai meriti che ognuno acquisisce contribuendo alla loro produzione e riproduzione, e una tendenza a pareggiare vantaggi/svantaggi nei rapporti sociali, volontari o involontari. Mentre la prima forma di giustizia quindi diffonde la cultura dei doveri e della responsabilità, la seconda diffonde amore e pietas, avendo funzione caritativa e benevolente. Ogni lesione a entrambi i tipi di giustizia è dunque un’ingiuria che provoca sofferenza e che pertanto richiede una riparazione. La sfida, la scommessa, la provocazione che la giustizia riparativa lancia è allora quella di superare la logica del castigo per le ‘colpe’ commesse, muovendo piuttosto da una lettura relazionale del fenomeno fonte di conflitto e disagio emotivo, che va a ‘rompere’ aspettative sociali simbolicamente condivise. Ecco che chi crea sofferenza con condotte offensive e/o dannose non può eticamente sottrarsi a forme di riparazione del danno provocato.
Il concetto di ‘terza sfera di giustizia’, ossia della sfera della moralità, ci aiuta a comprendere che da essa non può che discendere proprio questa giustizia riparatrice, tesa alla continua ricerca di una paziente rielaborazione delle relazioni sociali distrutte dalle sofferenze patite.
Il concetto di ‘terza sfera di giustizia’, ossia della sfera della moralità, ci aiuta a comprendere che da essa non può che discendere proprio questa giustizia riparatrice, tesa alla continua ricerca di una paziente rielaborazione delle relazioni sociali distrutte dalle sofferenze patite.
Il fatto che si possa e si debba riparare attraverso la riconciliazione è essenzialmente anche una terapia per l’organizzazione e dell’organizzazione. [...] Riparare vuol dire ricostruire il mondo vitale del soggetto – dei soggetti (vittima e carnefice) – sia per diminuire i gradi di sofferenza sia per ricucire i legami e sanare fratture che possono, se assurte a insegna della riprovazione, distruggere l’operatività dell’impresa mentre annichiliscono le persone, umiliandole e affliggendole. [...] L’impresa, costituendosi come spazio pubblico di riparazione, adempie ancor più ai principi e ai fini del miglioramento della condizione umana. (Sapelli, 2007)
Non è mai inutile ribadire l’importanza delle dinamiche della conoscenza e della coscienza proprie dei processi di formazione dell’uomo: 'Nei secoli la sapienza è diventata saggezza, poi cultura, infine si è degradata a informazione per poi polverizzarsi nei dati'. (3) Credo che dai dati, dalle ricerche, dalle teorie si debba partire, ma che il viaggio debba portare sempre all’interezza della persona che vive, ama, crea, lavora, gioca, dubita, soffre, cerca di sopravvivere e in ciascuna di queste situazioni sempre dimostra unità di ragione e sentimento, interiorità e azione, tenuti insieme dalla morale. La pura ragione, senza la mediazione della rettitudine spirituale, è insufficiente perché l’uomo sia completo e non solo una biografia e una storia. A patto che la morale, come dovere interiore e come necessità del mondo, come fuoriuscita dai propri orizzonti, mossi da un interiore bisogno di fare ciò che è giusto e non fa male agli altri, come perfezionamento dell’esistente a cui ci sentiamo chiamati, come purezza del cuore che vuole il bene, come apporto dell’uomo all’essere – come scriveva Alberoni nel 1994 – non sia un modo stabile di essere, ma 'una ricerca, un’invenzione, un profumo, un atto creativo e un risveglio'.
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