LA MIA IDEA DI DRAMMATURGIA & GUERRA
Tu puoi anche non mostrare alcun interesse per la guerra, ma prima o poi la guerra si interesserà sicuramente a te. Questa citazione attribuita a Trotsky, compare nell’introduzione del saggio 'Le nostre guerre. Filosofia e sociologia dei conflitti armati', scritto dal professor Alessandro Dal Lago, che ebbi la fortuna di avere come docente di Sociologia dei Processi Culturali e di Sociologia della Comunicazione durante il mio percorso universitario. A distanza di anni dalla sua pubblicazione, il testo è di drammatica attualità, dato che il mondo globalizzato è indissolubilmente implicato e complicato dalle dinamiche conflittuali vicine o lontane, materiali o simboliche, virtuali o reali, per cui ci risulta impossibile sfuggire a queste concatenazioni di drammatici eventi. Anche se noi nati post seconda guerra mondiale ci siamo probabilmente costruiti un’idea delle guerre mutuandola più che altro dal cinema, dai libri a tema, o dalle rappresentazioni teatrali, il nostro Paese è stato di fatto coinvolto più o meno direttamente in missioni di guerra o peace-keaping in molte aree del mondo. Penso ai Balcani, alla Somalia, al Kuwait, all’Iraq, all’Afghanistan, al Libano e indirettamente al conflitto russo-ucraino. Nelle varie operazioni di guerra al ‘terrore’ (una sorta di evento eccezionale da cui proteggersi e possibilmente da eliminare, quasi al pari di una pandemia o di uno tsunami) i nemici tutto sommato spesso assumono contorni quasi impalpabili, virtuali, evanescenti, anche se purtroppo di dimostrano assai capaci di infliggere colpi devastanti; è su questa dimensione che si stagliano intere popolazioni spodestate dai loro insediamenti, campi profughi e flussi di richiedenti asilo che si moltiplicano; un senso di totale instabilità e imprevedibilità (Bauman: ‘modernità liquida e rarefatta’ e unsicherheit, insicurezza) e rischio (Beck) che aleggia cupo, accrescendo la paura. Tutti così, più meno in modo consapevole, siamo contemporaneamente vittime non solo di insicurezze esistenziali (insecurity) per la nostra propria persona (unsafety) e di incertezze (uncertainty), ma anche dello stato di precarietà generalizzato, ampiamente sfruttato per la diffusione di nuove tecnologie di controllo, con una sempre maggiore tendenza a ridurre la libertà di circolazione e di movimento, soprattutto degli stranieri, alimentando un’ostilità crescente nei confronti delle categorie di persone suscettibili di ‘essere’ o ‘diventare’ nostri nemici. E così la dimensione della guerra tende ad assorbire la nostra esistenza anche quando pensiamo di non esserne direttamente coinvolti. Come potrebbe il Teatro – in particolare quello definito ‘civile’ – restare indifferente alle liturgie degli attentati, alle litanie dei bombardamenti più o meno chirurgici, delle guerriglie urbane o delle operazioni smaccatamente segrete? Dal Lago parla di ‘mitridatizzazione’ della violenza organizzata quale risposta alla overinformation (quantitativa e qualitativa) cui siamo sottoposti dai media, fabbrica di uno sciame turbolento, ridondante quando non contraddittorio di news in cui il nostro bisogno di comprendere rischia di annegare, contaminato dai contenuti pressocché indistinguibili di verità e falsità.
Non è questo lo spazio in cui affrontare il potente sguardo dei drammaturghi dell’antica Grecia, che di guerra se ne occuparono con grande attenzione, mostrandoci i due punti di vista di polemos (lotta con i barbari, senza limiti) e di stasis, conflitto interno alla singola città e tra le città greche, che dovrebbe avere dei limiti: nelle Leggi, Platone giudica stasis la più ‘dura’ delle guerre, non tanto perché la più sanguinosa, ma in quanto dissolutrice dei legami sociali. Voglio solo accennare a Elena e a Le Troiane di Euripide, a Lisistrata di Aristofane, in cui immortali possenti personaggi femminili ancora oggi levano le loro voci accomunate da un grido di rabbia e dolore contro l’insensatezza della guerra. Da allora il tema della guerra costituisce un fil rouge che attraversa la storia del Teatro – in particolare quello definito ‘civile’ –: molti i drammaturghi del Novecento a essersi espressi a riguardo (Toller, Giraudoux, Irwin, Anouilh, Brecht… e poi ancora Müller, Kantor, Ionesco, per citare solo alcuni nomi tra i grandi). Attraverso le narrazioni che questi Maestri hanno avuto il coraggio di mettere in scena, emozionando innumerevoli spettatori, si dipana la Storia. Il Teatro si conferma, insieme al Cinema e alla Letteratura, come una tra le più longeve ‘macchine del Tempo’ per chi vuole davvero com-prendere (alla latina) e ascoltare, sperimentando un’esperienza immersiva potente, piuttosto che limitarsi a consumare uno spettacolo, interrogandosi sulla più tremenda quanto assurda invenzione degli uomini. 
Sono sempre stata attratta da come viene vissuto il Sacro nelle diverse religioni, motivo per cui studio le dinamiche che riguardano anche il mondo islamico, indagando la psicologia e la potenza fuori controllo dell’impulso – più fanatico che religioso – che anima i terroristi (intesi come coloro che fanno uso illegale, violento e ripetuto del terrore contro la popolazione civile), cercando, nel mio piccolo, umilmente, di osservarle da una prospettiva narrativa. Ritengo che la Guerra trasformi gli uomini, alterandone i comportamenti e sentimenti, popolando il loro immaginario di scenari e situazioni altrimenti irrealizzabili. Tutte le scienze hanno dei principi e delle regole; la guerra non ne ha alcuno, scriveva Maurizio di Sassonia, nel 1757.
La morte si sconta vivendo, scriveva Ungaretti: i miei testi teatrali affrontano questa, a mio parere, condivisibile affermazione senza però mai far venir meno il concetto di Speranza, che da sempre mi sostiene fermamente. Dolore & Morte – come inscindibile coppia-sottotesto di conflitti e guerre, che devastano il nostro tempo –, vengono da me proposti in ottemperanza alla dimensione socio-politica (conseguenze di conflitti) e a quella ideologica (credo religioso declinato nella duplice visione cristiana e islamica).
Se tra i principali compiti dell’arte sta il making-sense alle nostre urgenze di uomini, sono convinta che proprio per questo sia necessaria una poetica del mondo da collegare anche alla polis, intesa come atto civile. Il Teatro civile in effetti si occupa e pre-occupa di proporre spunti di storia collettiva e interrogativi attuali, non solo e non tanto per ‘raccontare’, ma per riflettere/far riflettere. Al Teatro non è dato, è ovvio, di modificare gli accadimenti, ma è importante che almeno provi a dare voce e speranze a chi magari purtroppo le ha perse oppure non ritiene più di averne. Raccontare certe storie forti ha in sé qualcosa di dinamico, a mio parere, che muove pensieri e stimola: l’auspicio è quello di suscitare la voglia di uscire da certe situazioni stagnanti e desiderare vie diverse da percorrere. Dato che amo una scrittura venata di poesia, cerco di non mancare mai questo tipo di sguardo, che, nel mio intento, vorrebbe sempre rimettere al centro la vita.
estratto dell'intervista di Enrico Redaelli Spreafico, pubblicata su Cromosoma T, 1/2022, pro(getto)scena edition ETS


πόλεμος, bellum, conflitto, Guerra: ETIMOLOGIE
La parola greca per guerra è πόλεμος [1], in contrapposizione a εἰρήνη, la pace. Nei poemi epici πόλεμος o πτόλεμος indica spesso il combattimento, la battaglia, lo scontro, persino la zuffa. Nel greco postomerico il significato usuale è invece quello di guerra: πόλεμος τῶν βαρβάρων è la guerra contro i barbari; ὁ πόλεμος Ἰωνικός la guerra ionica; ἱερὸς πόλεμος la guerra sacra. Riguardo all’origine del sostantivo, esso esprimerebbe l’azione corrispondente al verbo πελεμίζω, (agitare, scuotere), forse in rapporto al brandire la lancia. L’etimologia si potrebbe quindi ricondurre a quella della famiglia del verbo πάλλω (agitare, brandire in genere riferito ad armi da getto).
‘Conflitto’ e ‘guerra’ sono parole che vengono utilizzate nel linguaggio corrente come sinonimi, pur avendo origini etimologiche differenti. La prima deriva dal latino conflictus e dal verbo confligere composto da cum + fligere, cioè urtare, sbattere. Cum è un prefisso che ci istruisce sul fatto che l’urto è sempre contro qualcun altro o altra. Il conflitto viene chiamato in causa da una pluralità di contesti, e infatti esistono conflitti sociali, di potere, di interesse, ideologici, economici, di coppia, genitoriali, interpersonali, etc. Il conflitto può manifestarsi ed essere risolto attraverso la violenza o senza il ricorso alla forza oppure può restare latente e non risolversi. Poi ci sono i conflitti armati e in questo caso il termine conflitto viene usato come sinonimo di ‘guerra’. Variegato l’uso degli aggettivi che spesso accompagnano il vocabolo ‘guerra’: umanitaria, preventiva, internazionale, civile, convenzionale o non, doganale, commerciale, di propaganda, fredda, etc.
L’etimo della parola guerra si ricollega all’antico tedesco werra, che esprime l’idea della mischia, del groviglio, dello scontro disordinato in cui si avviluppano i combattenti (la stessa radice si trova nell’inglese war). Tale modalità di combattimento, tipico delle popolazioni germaniche antiche, si contrapponeva al bellum [2], modalità di combattimento ordinato proprio dei Romani.
A volte bellum è usato come sinonimo di proelium, nel significato più specifico di ‘combattimento’, ‘battaglia’, mentre al plurale, specie in poesia, può indicare anche le truppe, l’esercito o le armi.
Nonostante la suggestiva ipotesi che il termine latino bellum, ‘guerra’, secondo una singolare ipotesi di Festo [3] – grammatico romano del II secolo d.C. –, deriverebbe da belua, ‘bestia feroce’ [4], quasi a ricordare la ferocia inaudita con cui gli uomini si combattono, la vera etimologia deve essere ricercata in un’altra voce latina, duellum, ‘duello’, indicante la discordia fra due popoli:
duellum → bellum (analogamente, per alterazione, da duis è derivato bis).
Una fortuita parziale omofonia con il numerale due ha avuto un importante ruolo nella forma e nella diffusione della parola latina duellum, da cui derivano, oltre alla parola italiana duello, anche i suoi corrispondenti in molte lingue europee (vedi portoghese e spagnolo duelo, albanese, bulgaro, catalano, francese, inglese, rumeno duel, estone e svedese duell, ecc.).
Già in latino la parola duellum è stata infatti reinterpretata come una parola complessa il cui elemento iniziale esprime il valore 'due'. Si tratta di una falsa etimologia, una cosiddetta etimologia popolare o paretimologia, che trova giustificazione dal punto di vista formale nella forte somiglianza fra la parte iniziale della parola e il numerale latino duo 'due', e dal punto di vista semantico nel fatto che il duello si svolge normalmente tra due contendenti [5].
Il latino duellum [6] deriva invece dalla stessa forma *dwellum [7] da cui ha origine anche la parola bellum, ‘battaglia, guerra’ (con rimando all’italiano bellico, ribelle): entrambe le parole derivano dunque da un lessema non scomponibile in elementi significativi, il cui nesso iniziale dw ha avuto come esito intermedio du e come risultato conclusivo l’occlusiva bilabiale sonora b. [8]
Duellum comunque non era l’unica parola in latino per indicare il combattimento tra due uomini: esistevano, infatti, anche pugna – per la battaglia, il combattimento, ma anche per gli scontri tra singoli, e quindi le lotte tra gladiatori – e l’espressione singulare certamen – spesso ricorrente per i duelli fra eroi [9].
Esempi di etimologie popolari si trovano, tra gli altri, nel dottore della Chiesa e santo, Isidoro di Siviglia (530-636): bellum antea duellum vocatum eo quod duae sint partes dimicantium, vel quod alterum faciat victorem, alterum victum. Postea mutata et detracta littera dictum est bellum e nello storico, monaco e scrittore longobardo, Paolo Diacono (720-/724 ca.-799 ca.): duellum bellum, videlicet quod duabus partibus de victoria contendentibus dimicatur. Altre indicazioni etimologiche, attestanti l’arcaicità di bellum, si leggono nelle opere di Varrone: Bellona a bello nunc, quae Duellona a duello [10]; Cicerone: ut duellum bellum et duis bis [11]; Quintiliano: ex duello bellum [12]. Il significato di ‘guerra’ è ancora presente in Livio, che usa duellum per indicare i conflitti che avevano opposto i Romani ai Cartaginesi e ai Galli, ma in seguito la parola si specializza sempre più nel designare il particolare tipo di combattimento svolto dai gladiatori nelle arene, restando solo a latere impiegata in altri sensi, in particolare in contesti di registro basso [13].
Pare tuttavia che bellum ingenerasse confusione con l’aggettivo bellus, ‘bello, grazioso’, di significato completamente diverso, in quanto diminutivo di bonus, ‘buono’ (bonus → benulus → bellus), motivo per cui l’italiano, come le altre lingue romanze, preferì sostituirlo con la parola medievale germanica werra, che indicava invece la zuffa, la mischia, in contrapposizione alla guerra ordinata (bellum) di schiere contro schiere, secondo l’ordinamento tipico dei Romani. Da bellum derivarono poi le voci dotte ‘bellico’, ‘bellicoso’, ‘belligeranza’ e ‘belligerante’. Proprio sull’accostamento di bellum e bello, così simili nel suono ma opposti nel significato, gioca una frase, divenuta celebre, di Isidoro di Siviglia (530-636): bellum quod res bella non sit [14].
Occorre restare su un punto fermo. Nell’accezione corrente del I secolo a.C., bellum sta a significare sia un conflitto armato tra hostes (definito quindi da precise regole religiose e giuridiche):
Bellum est contra hostes exortum, tumultus vero domestica appellatione concitatus. Hic et seditio nuncupatur. [15]
sia il periodo di tempo necessario alla conclusione delle ostilità, in antitesi quindi al tempo di pace:
Qui sese in bella sequantur in expeditionem et bellicam praeparationem: nam, ut supra diximus, ‘bellum’ est tempus omne quo vel praeparatur aliquid pugnae necessarium, vel quo pugna geritur, ‘proelium’ autem dicitur conflictus ipse bellorum: unde modo bene dixit ‘qui sese in bella sequantur’, non ‘in proelium’; nam ad auxilia petenda vadit, non ad pugnam. [16]
L’osservanza della pax sembra essere condizione necessaria per distinguere subiecti e superbi, assicurando la legittimità del parcere nei confronti dei primi [17] e dello «sterminio con la guerra» nei confronti degli altri [18]. Il carattere bilaterale della pace risulta evidente anche nelle definizioni date da molti giuristi che sottolineano la connessione etimologica del termine pax con le parole pactio e pactum.
Pax [19], nome d’azione femminile, designa l’atto di stipulare una convenzione, quindi gli atti relativi alla situazione di pace.
L’essenza della vocazione pacifica e universalistica perseguita dal populus Romanus, seppure attraverso una storia di guerre ininterrotte, si collocava proprio nello strettissimo legame tra guerra e pace, o meglio tra la vittoria militare e il paci imponere morem: con la guerra si mirava a realizzare una situazione di superiorità, atta a consentire di dettare all’avversario le condizioni per l’instaurazione di un certo rapporto fra Roma e il nemico vinto.

note

[1] Alcuni usi metaforici sono attestati in letteratura: ad esempio in Eschilo (Prometeo incatenato, 904) il termine è riferito all’amore, definito guerra insostenibile (ἀπόλεμος ὁ πόλεμος). In poesia Πόλεμος è anche la Guerra personificata. Dal greco, transitando per il francese polémique, deriva il nostro termine ‘polemica’.
[2] La guerra è denominata dai Romani quasi sempre in base al nome del popolo avverso: bellum Mithridaticum, bellum Samnitium, bellum Punicum; ma può essere anche una guerra civile, interna: bellum intestinum ac domesticum.
[3] Tale interpretazione bellum a beluis di Festo (e Verrio Flacco) è attestata da Paolo Diacono (Fest. ep., p. 30 L.: Bellum a beluis dicitur, quia beluarum sit pernitiosa dissensio).
[4] Tale pseudo-etimologia è ripresa anche da More, nella sua Utopia.
[5] C. Iacobini, Una contesa a tre per l’espressione della nozione di duello nelle lingue d’Europa: greco monomakhia, latino duellum, tedesco Zweikampf, in Giornale di storia contemporanea, VIII, 2, dicembre 2005, Cosenza, p. 9.
[6] Interessante notare come il (falso) riconoscimento di un elemento iniziale due all’interno del latino duellum abbia favorito il mantenimento nell’uso della forma duellum accanto alla più regolare bellum. In lingue europee non derivate dal latino, inoltre, la formazione di parole composte in cui la nozione di duello è espressa da un primo elemento che significa ‘due, di due, fra due, coppia’ e un secondo elemento che significa ‘battaglia, combattimento’ (vedi tedesco Zweikampf, svedese tvekamp, bulgaro dvuboj, lituano dvìkova, ungherese parbaj), come se duello fosse un composto formato da duo e da bellum. Questa interpretazione è stata favorita dall’affermazione del senso ‘combattimento fra due persone’, prevalente già in latino medievale, che la parola latina duellum ha sviluppato accanto a quello originario di ‘battaglia, guerra’. Cfr. nota precedente.
[7] Non essendo una forma attestata nei testi latini che ci sono rimasti la si indica convenzionalmente preceduta da un asterisco.
[8] Altri mutamenti similari: duenos > bonus, *duis > bis.
[9] Ne risulta un’espressione molto vicina nel significato al tipo greco monomakhia, e all’uso letterale dell’italiano ‘singolar tenzone’. Monomakhia è una parola composta: monos, ‘unico, solo, singolo’ + l’elemento finale ‘combattimento, battaglia’, da cui il significato di ‘duello’ espresso tramite il concetto di ‘battaglia singola’ o ‘tra singoli individui’.
[10] M. Terenti Varronis, De lingua latina, 5, 73
[11] Cicero, Orator, 45.
[12] M. Quintilianus, Inst., 1,4,15.
[13] C. Iacobini, Una contesa a tre, cit., p. 17.
[14] “[La guerra si chiama] bellum perché non è una cosa bella”. La citazione è tratta dal suo capolavoro le Etimologie (18, 1, 9), che racchiude in venti libri tutto lo scibile del tempo.
[15] Isidoro, Diff. 1.563.
[16] Servio, Ad Aen. 8.547. (cfr. anche Servio Dan., Ad Aen. 1.456; 2397; Nonio, p. 703 L.).
[17] Da considerare che il dovere di parcere i nemici sottomessi, motivo ricorrente nella riflessione politica e giuridica dell’età repubblicana (Cicerone, De off. 1.35: Quare suscipienda quidem bella sunt ob eam causam, ut sine iniuria in pace vivatur, parta autem victoria conservandi ii, qui non crude/es in bello, non inmanes fuerunt, ut maiores nostri Tusculanos, Aequos, Volscos, Sabinos, Hemicos in civi­tatem etiam acceperunt; Tito Livio 30.42.16-17: Populum Romanum eo invictum esse, quod in secundis rebus sapere et consulere meminerit; et hercule mirandum fuisse, si a/iter faceret; ex insolentia, quibus nova bona fortuna sit, impotentis lae­titiae insanire; populo Romano usitata ac propre tam obsoleta ex victoria gaudia esse, ac plus paene parcendo victis quam vincendo imperium auxisse), diventa poi nell’ideologia augustea uno dei cardini dell’azione del princeps (Res Gestae 13.15-16: Externas gentes, quibus tuto ignosci potuit, conservare quam excidere malui). Cfr. F. Sini, Ut iustum conciperetur bellum: guerra ‘giusta’ e sistema giuridico-religioso romano, in A. Calore (a cura di), Seminari di Storia e di Diritto, III, «Guerra giusta»? Le metamorfosi di un concetto antico, Milano, 2003, p. 72.
[18] La pace si presenta come lo strumento per governare il mondo con un potere che va al di là del puro esercizio del potere, manifestandosi come lo strumento in grado di ristabilire la giustizia, esigendo la sottomissione di tutti i popoli al volere del fato: chi non lo accetta, si macchia della colpa della superbia, per la quale non vi sono perdono o clemenza.
[19] Pax si ricollega alla radice indoeuropea pak-, alternante con pag-, da cui anche l’arcaico pacere delle XII Tavole, pacisci, pacio, pactio. Marta Sordi, connette pax, mediante la pax deorum, alla vetusta cerimonia clavum pangere: il conficcamento rituale del chiodo dextro lateri aedis lovis optimi maximi attestato da Tito Livio (7.3.3-6). Cfr. M. Sordi (a cura di), ‘Pax deorum’ e libertà religiosa nella storia di Roma, in La pace nel mondo antico, Milano, 1985, pp. 146 e ss.
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