Università degli Studi di Genova, Facoltà di SCIENZE DELLA FORMAZIONE, Corso di laurea in ESPERTO IN PROCESSI FORMATIVI
Tesi di laurea in Psicologia del Lavoro e delle Organizzazioni
ANTICHI E NUOVI VIZI NEGLI AMBIENTI DI LAVORO:
EMERGENZE EMOTIVE, SOFFERENZE E CONFLITTI
premessa
L’uomo non è soltanto un braccio e non soltanto un cuore. L’uomo è una mente, un progetto, una libertà. Colpita da queste parole di Crozier e Friedberg ('Attore sociale e sistema'), gli autorevoli studiosi delle organizzazioni che ritenevano che l’uomo in un’organizzazione non potesse essere semplicisticamente considerato come implicitamente supponeva l’ipotesi tayloristica-fordistica (braccio), né solo come sostenevano i fautori del movimento delle Human Relations (braccio e cuore), concordo con loro sul fatto che troppi manager, capi del personale, colleghi d’ufficio, collaboratori, etc. dimenticano – o fingono di non sapere? – che l’uomo ‘anche’ quando lavora è una mente, un agente autonomo capace di invenzioni e adattamenti, negoziazioni e manipolazioni, progetti e strategie, in funzione delle circostanze, degli inevitabili tentativi di tutela dei suoi interessi, nonché delle persone con cui si relaziona.
L’uomo è sempre un essere pensante e libero, dentro il quale non è possibile riuscire a leggere tutto ciò da cui viene attraversato a diversi livelli di profondità, nel ‘bene’ e nel ‘male’, a seconda della sua personalità e della sua biografia. La razionalità – se pure sempre limitata, come ci ricorda il Premio Nobel per l’Economia Simon – infatti appartiene sia alle organizzazioni sia alle persone che vi lavorano e non sempre ovviamente coincide: da qui le situazioni imprevedibili e l’incertezza, che possono provocare condotte non sempre predeterminabili. In questo si inserisce il discorso delle sfere di potere (che non necessariamente corrispondono al grado gerarchico e/o all’autorità formale ricoperti in un’organizzazione), la cui capacità è appunto quella di controllare i margini di incertezza presenti nei rapporti tra persone, che, per quanto seguano delle regole e si adattino alle situazioni, tendono sempre e comunque a crearsi (e mantenere) spazi propri.
L’organizzazione è qualcosa di più della somma delle persone che la compongono e la animano e non può prescindere dagli uomini: ognuno di loro contribuisce in maggiore o minore misura, con maggiore o minore consapevolezza, a creare la cultura e il clima interno, a interpretare le normative, a fissare i rapporti di potere, a stabilire i livelli di efficienza, le aspettative e l’immagine che l’organizzazione ha nell’ambiente circostante.
Ogni persona che lavora dunque, qualunque sia il suo ruolo, contribuisce a plasmare giorno dopo giorno l’organizzazione in cui agisce, che a sua volta condiziona queste azioni con i suoi specifici vincoli normativi, tecnici, economici e culturali. Tale processo incessante di strutturazione, come lo chiama il sociologo Giddens, inevitabilmente comporta risonanze soggettive dai risvolti non sempre indolori: le organizzazioni infatti spesso sono territori aspri e talvolta ingrati per tanti di noi che vi impegnano larga parte del proprio progetto di vita.
Analizzare l’affascinante dimensione dell’irriducibile esperienza soggettiva che si coglie in ogni racconto e in ogni ‘narrazione’ mostra apertamente che la vita organizzativa è anche un grande contenitore in cui si addensa tutto ciò che è incidentale, indeterminato, improvviso, implicito ed inatteso: proprio guardando in questa direzione affioreranno allora l’irrazionale e il dialogo con l’inconscio che appartengono profondamente a questo mondo, in cui si radicano i molteplici disturbi nevrotici organizzativi, malesseri emotivi e conflitti, che costituiscono il tema affrontato in questa mia tesi di laurea.
Prima di concludere questa premessa, occorre una precisazione linguistica, per definire l’interpretazione della tipologia culturale di approccio al mondo del lavoro, adottata in questo mio studio, in cui certo non tace il ‘rumore di fondo’ della Bibbia, che appartiene alla mia formazione. Il termine ‘lavoro’ deriva, come noto, dal latino labor: fatica. La radice labh - che sembrerebbe avere  il senso proprio di ‘afferrare’ e quello figurato di ‘volgere il desiderio, la volontà l’intento, l’opera a qualcosa’, ossia ‘agognare’, ‘intraprendere’, ‘ottenere’, ‘impossessarsi’ - si sarebbe mutata dal sanscrito rabh (rabh-ate: ‘afferrare’, ‘prendere’, da cui sam-rabh-ate: ‘divenir padrone’ e rabh-as: ‘movimento violento dell’animo o del corpo’, ‘impeto’, ‘forza’), con una trasposizione in arbh (in tedesco moderno arbeit:  ‘fatica’, ‘lavoro’). In francese ‘lavoro’ si traduce con labeur, ma anche travail; in spagnolo con labor oppure trabajo, in portoghese lavor oppure trabalho; dunque in tutte queste lingue, oltre che nella nostra, si trasmette un significato di fatica, lavoro e pena sofferta, riservando un’accezione negativa a qualsiasi attività lavorativa. La correlazione con i termini ‘travaglio’ (anche in molti dialetti - es. genovese), ricollegabile al momento precedente il parto, e ‘fatica’ (napoletano e dialetti sannitici) è immediata ed esprime in fondo un concetto analogo a quello del più biblico dei castighi, ossia quello narrato in Genesi (3,18): 'Mangerai il pane col sudore del tuo volto, finché tu ritorni nella terra donde fosti tratto; perché sei polvere, e in polvere ritornerai'.
Ecco che qualsiasi occupazione, in base a questa interpretazione cristiana eccessivamente dogmatica, ma assai profondamente penetrata nella cultura europea, come testimoniano i vocaboli sopracitati, assume i toni di una maledizione/espiazione riservata all’uomo, come pure il corrispettivo parallelo dei dolori del parto riservati alla donna in conseguenza del Peccato, assai diversamente invece dal concetto di lavoro come professione, ossia, risposta vocazionale (Beruf), lecita e naturale, specifico dovere sociale collocato nell’ordine del mondo creato da Dio e a cui Dio stesso chiama ciascuno, individualmente, secondo i principi luterani.*
La mia convinzione (la tesi appunto) è che da un nucleo di ‘vizi capitali’ (in particolare esaminerò Ira, Invidia e Superbia) e ‘vizi nuovi’ (ossia propri del nostro tempo: Conformismo, Diniego, Discredito, Indifferenza e Competitività), che inclinano gli individui in una certa direzione piuttosto che in un’altra, nelle organizzazioni, assai spesso incapaci di corrispondere alle attese di chi vi lavora e vorrebbe attuare un percorso di realizzazione anche personale, si viene risucchiati in un vortice di sollecitazioni di meccanismi individuali di difesa dall’ansia e perturbanti collusioni nelle relazioni.

In questa nostra società odierna e globalizzata, in cui nulla è stabile né prevedibile, tutto è incerto (come ben descrive Bauman, quando parla di ‘modernità liquida e rarefatta’ e unsicherheit, insicurezza) e il tema del rischio (come propone Beck) aleggia cupo, accrescendo la paura, grave si evidenzia la ‘plasticità’ del modello occupazionale moderno (Gergen), dove, spostandosi da un posto di lavoro all’altro, le persone subiscono le sfide di una serie infinita di richieste comportamentali in ambienti in cui vengono celebrate la versatilità, il dinamismo e la flessibilità.
Tutti noi allora siamo contemporaneamente vittime non solo di insicurezze esistenziali (insecurity) per la nostra propria persona (unsafety) e incertezze (uncertainty), ma anche dello stato di precarietà sul piano professionale, da cui quella sorta di ‘disancoramento’ spazio-temporale (disembedding) di cui tanto si parla. Ma poiché, citando Coleridge, 'Il lavoro senza speranza spilla nettare in un setaccio, / e speranza senza oggetto non può vivere' – né superare il lutto, la beffa che accompagna le speranze tradite, voglio ‘sperare contro ogni speranza’ e non voglio avere il timore di pensare non solo a quella giustizia distributiva – il dare secondo i meriti – e commutativa, che ci derivano dagli antichi e che mirano a ricostruire un’uguaglianza tra gli uomini, ma anche a quella riparatrice, che nelle organizzazioni potrebbe – cercando di risolvere i conflitti – tendere all’eu prattein (la vita compiuta o felice, il vivere bene) di aristotelica memoria.
Tra la morale e la legge sta l’etica e questa parla al cuore dell’uomo, perché ne fonda l’equilibrio personale: credo che questa sia la via per diminuire le variegate sofferenze emotive organizzative, che certo sono il riflesso ‘anche’ di un malessere etico contemporaneo. Tanto più forte è l’identificazione della mission e della vision chiaramente indicate dal vertice direttivo, tanto minori saranno i comportamenti opportunistici e le cadute di autorità: lealtà e comunicazione, che rappresentano i valori più agognati e le risorse organizzative di maggior peso, appariranno allora quali mete più raggiungibili, perché, come scrive G. Sapelli, '
la deontologia dell’eccellenza della prestazione è il paradigma fondativo di una professionalità come moralità irrinunciabile'.

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* La valorizzazione del lavoro troverà poi la sua massima espressione nel Calvinismo e l’attenta analisi weberiana del dogma della predestinazione evidenzia proprio nel lavoro il manifestarsi delle azioni umane del piano provvidenziale: l’onesto successo mondano, conseguenza di un alacre impegno professionale, appare la conferma – Bewährung – migliore dell’efficacia della fede e della presenza della ‘grazia’ nella propria vita.
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