Da Platone in poi si continua a ripetere che il bene è, per definizione, il supremamente desiderabile, eppure si perde nella notte dei tempi l’usanza di definire ed enumerare i peccati [1], che poi nella concezione più attuale si possono riassumere nell’incapacità di stare, di rimanere, di ‘non saper sostare’ all’interno di una relazione. Fonte di condanna morale per le religioni, all’origine di ogni «cattivo piacere» per i moralisti, il vizio (che, come la virtù, è sempre una scelta consapevole dell’uomo) ha suscitato da sempre l’interesse dell’etica, dell’arte e della filosofia, in quanto realtà profondamente umana. Se ai Padri del deserto si è soliti far risalire la codificazione dei sette vizi capitali (elenco delle peggiori corruzioni e dissolutezze dell’Uomo, conseguenti alla edenica ‘caduta’ dell’essere umano maschio (אִשׁ, ish) e dell’essere umano femmina (אִשָּׁה, ishàh) [2], essi restano affrescati nella memoria collettiva grazie al racconto dei gironi danteschi (per il sommo poeta il peccato era ‘eccesso o difetto d’amore’, dunque, prima di essere male di Satana, il male dell’Uomo), alle numerose citazioni letterarie [3], pittoriche [4] e cinematografiche [5]. Analizzare il repertorio dei sette vizi capitali significa dunque attingere non solo alla grande tradizione teologica delle Scritture, ma anche a trame e personaggi letterarî: da Aristotele (nell’Etica a Nicomaco li qualifica ‘abiti del male’) a oggi infatti non è esistito grande pensatore che non abbia dedicato anche a uno solo di questi vizi pagine o opere memorabili. Non è questo l’argomento di questo mio testo, quindi non ripercorro la sistematizzazione di questa materia che, attraverso Evagrio da Ponto, Giovanni Cassio, Gregorio Magno, Giovanni Climaco e Giovanni Damasceno giunse alle Chiese di Oriente: rammento solo che il punto di vista degli autori latini fu soprattutto dogmatico e morale, mentre quello degli autori orientali principalmente pratico e inerente la vita spirituale. Tra i teologi medievali che hanno presentato magistralmente questa dottrina si distaccano Ugo di San Vittore, Pietro Lombardo, Bonaventura e Tommaso d’Aquino: fu quest’ultimo nel XIII secolo, a introdurla nel Catechismo della Chiesa cattolica [6].
Gli psicologi hanno approfondito le motivazioni e le manifestazioni di questi vizi e i sociologi hanno mostrato che assumono frequentemente forme sociali e culturali [7]. I vizi col passare del tempo non sono dunque più espressione morale di una tipologia umana, ma sono entrati in una dimensione psicopatologica: non più vizi, insomma, ma malattie dello spirito.
Superbia & Invidia
13 aprile 1300. Prima cornice, Purgatorio. XI canto de La Divina Commedia: gli spiriti dei Superbi camminano, portando sulle spalle grossi massi, che li costringono a tenere il volto basso, nel frattempo osservando esempi di umiltà e di superbia punita. Per la legge del contrappasso, così come in vita guardavano gli altri dall’alto in basso, ora devono guardare per terra; come vivi cercavano di superare gli altri, ora devono procedere lentamente. Inizio di ogni peccato è la superbia, si legge nel Siracide (10,15); Chi nega la superbia in sé la possiede di solito in forma così brutale, da chiudere istintivamente gli occhi di fronte ad essa, per non doversi disprezzare, scriveva Nietzsche in Umano troppo umano (1878).
La superbia si radica profondamente nella ricerca spasmodica di affermazione della propria identità. Come l’invidia anche questo vizio è relazionale: gli altri sono indispensabili perché ci si possa sentire superiori [8]. Innamorato della propria eccellenza (Tommaso d’Aquino, Summa theologiae), il superbo è animato da una presunzione accecante e perversa di superare gli altri, ma abbisogna del loro riconoscimento. Ma allora: superbia o orgoglio? Il giusto orgoglio è un atto di giustizia verso se stessi, uno stimolo alla conoscenza e alla consapevolezza, ma se la misura viene superata allora l’orgoglio si tramuta in vanità (l’orgoglio dei meschini), boria, pretenziosità, superbia, che ha in sé autocompiacimento e snobismo [9]. Correttivo della superbia è l’umiltà, ossia la consapevolezza dei propri limiti, grandemente celebrata dai Greci antichi, che ben la distinguevano dall’umiliazione.
In ambito organizzativo, il profilo di chi è ‘superbo’ mostra anche un notevole livello di perfezionismo, imponendosi standard elevatissimi per venir appunto riconosciuto come ‘il migliore’. Ovviamente mantenere questo controllo e il rischio sempre incombente di perdita di ruolo creano la necessità di strategie costanti per ridurre drasticamente l’ansia e lo stress, tipo pianificare l’attribuzione di responsabilità di eventuali insuccessi su colleghi/collaboratori, esercitare critiche feroci sul modo di lavorare altrui e svalutarli, creare deleghe solo apparenti che in realtà celano tranelli punitivi e atti a mostrare l’eventuale inadeguatezza. Altra testimonianza di un’immagine di sé grandiosa, se non onnipotente, è data dal narcisismo di chi vuole fortemente per sé e su di sé prestigio, ammirazione e lealtà, quasi sempre spinto da fantasie di grandi progetti, che tuttavia evita di realizzare in prima persona, lasciando agli altri l’incombenza ad agire. L’illusione di essere unici e speciali in realtà potrebbe nascondere una fragilità e precarietà interiori che altrimenti risulterebbero intollerabili e potrebbe compensare i vuoti affettivi dei primi anni di vita. Ovviamente se a essere narcisista è un leader, costui sarà terrorizzato dal talento dei suoi subordinati, che vedrà come minaccianti il suo ossessivo bisogno di controllo: probabile sarà allora il suo tentativo di indebolirli, creando un sistema di competitività estrema e affidando loro compiti impossibili, confondendo le informazioni e mistificando gli scopi autentici da perseguire.
Se Faust, che, sorretto da uno smisurato orgoglio, fu disposto a scendere a patti col diavolo pur di soddisfare la sua smisurata ambizione, è forse il personaggio simbolo della superbia, insieme a Lucifero, che cadde per la superbia e si dannò per l’invidia, le loro vicissitudini dimostrano quanto siano intersecati questi vizi capitali.
L’invidia, che cresce sul fertile terreno dell’insicurezza, è quella particolare forma di dolore mentale che è connessa alla percezione della differenza con proprio svantaggio, dunque è forse l’unico vizio che non dà piacere [10]. Anzi, si potrebbe dire che più che un vizio è un meccanismo di difesa disperato, per la salvaguardia di un’identità che si sente minacciata dal confronto con gli altri. La questione dell’invidia risiede pertanto soprattutto nella gestione del dolore mentale invidioso, che per trovare pace ha bisogno di distruggere la causa che lo suscita, di demolire l’altro. Chi è viziato da un assetto mentale di questo genere vive costantemente immerso nei sistemi intrapsichici e relazionali di questo tremendo malessere. Spinoza, nella sua Etica (1677), scriveva: L’invidia è quella disposizione che induce l’uomo a godere del male altrui e a rattristarsi, al contrario, dell’altrui bene. Triste dunque questa sorta di implosione di energia vitale, che comprime l’espansione degli altri, per l’incapacità di saper sopportare i propri limiti. Questa lente deformante, che stravolge i valori, impoverisce il mondo e crea enorme sofferenza.
L’invidia di Caino per il fratello Abele (che arriva a uccidere), l’invidia del seno (che può darsi o negarsi al lattante, come ben evidenzia Melanie Klein), l’invidia del pene (fonte di angoscia femminile, secondo Freud), l’invidia di Salieri nei confronti del genio musicale di Mozart, l’invidia della volpe che non riesce a cogliere l’uva (Esopo, Nondum matura est!), l’invidia della matrigna di Biancaneve (la più bella del reame), l’invidia degli dèi (che proprio non avrebbero motivo di provarla! [11]), etc. sono tutti risvolti di un sentimento che provoca un enorme disagio emotivo, causato dai tentativi di annullare, appunto, il dolore per le differenze rilevate con svantaggio per se stessi [12].
Una precisazione: spesso si confondono invidia e gelosia, [13] vocaboli che peraltro derivano da una medesima radice ebraica [14]: il geloso teme di perdere ciò che possiede – specifica lo psichiatra Willy Pasini – l’invidioso si tormenta nel vedere un altro possedere quello che lui desidera (e non ha).
Martin L. Bowles, in un’originalissima analisi del profilo archetipico del mondo organizzativo, che delinea essenzialmente ‘per miti’ [15], sceglie la strada degli dèi del pantheon greco-romano, per sintetizzare alcune presenze simboliche nel mondo lavorativo, accesso privilegiato all’inconscio collettivo dell’organizzazione. Le divinità dell’Olimpo allora costituiscono modelli che presidiano le dinamiche delle emozioni, così come i processi del comportamento, rispetto alle tre principali dimensioni della vita organizzativa: accettata (qui si inseriscono gli archetipi dominanti: Zeus, Apollo e Atena), rifiutata (in stretta relazione con gli archetipi inferiori: Poseidone, Ares, Ade), negletta (personificata dagli archetipi alternativi: Dioniso, Efesto, Demetra, Afrodite, Artemide). Tra gli archetipi dominanti e quelli inferiori si dipanano i conflitti intrapsichici dell’organizzazione: un possibile punto di avvicinamento può essere rappresentato da Ermes, il dio della comunicazione e della negoziazione, il messaggero intermediario tra l’Olimpo e la Terra, ma anche l’Ade.
In quest’ottica, tornando all’invidia, risulta assai interessante il profilo di Poseidone, signore del mare e delle acque: la sua gelosia, la sua competitività e la sua rivalità nei confronti del più potente fratello Zeus, che ebbe in sorte un destino più fulgido del suo, si manifestano in quel furore che può scatenare imprevedibilmente, quasi lo celasse sotto il livello visibile del suo regno. Poseidone fa affiorare il rimosso dai territori più profondi dell’inconscio e inonda – è il caso di dirlo – di emozioni straripanti l’apparente razionalità, che letteralmente sommerge con il suo impeto: è l’ombra del dominio, il suo lato oscuro che, assai più frequentemente di quanto non si pensi, si esprime nella controdipendenza ossessiva e invidiosa per il potere altrui. I dispotici e intemperanti ‘Poseideone’, impulsivi e alquanto instabili, non sanno evitare di rimanere invischiati in discussioni e dispute con cui fanno di ogni situazione o argomento una questione di contesa personale, disperdendo tempo ed energie in sterili e irriducibili contrasti, in scontri snervanti, che alla fine li isolano in ruoli marginali, strategia questa però che consente loro di resistere. Ma – non dimentichiamolo – le turbolenze possono rivelarsi anche positive, portando con sé impulsi utili al cambiamento.
Rabbia e aggressività
Restando con Bowles sull’Olimpo, è Ares, dio della guerra e dell’azione, il litigioso e aggressivo per eccellenza. Ha il gusto per il combattimento e vi impegna tutte le sue energie. La sua tenacia nell’opposizione al potere (soprattutto paterno, essendo figlio di Zeus) è la personificazione di chi, all’interno delle organizzazioni è – o per lo meno ritiene di essere – ‘solo contro tutti’, desideroso di gettarsi a capofitto in estenuanti e polemiche e sfide contro il leader riconosciuto, nel tentativo di dimostrare la propria superiorità. Tuttavia la sua incapacità di governare lo rende vulnerabile alle crisi nel transito della mezza età: ciò che infatti poteva accettare nel suo vigore giovanile, col tempo diventerà impossibile da gestire e per questo eterno guerriero non vi sarà poi più tanto spazio nella vita organizzativa. Se deciderà di abbandonare il campo di battaglia, magari con un gesto plateale, lascerà comunque un segno indelebile della sua presenza e del suo passaggio nell’Ombra organizzativa, cui ha contribuito sicuramente.
Se l’esito della guerra di Troia si gioca sulle fatali arrabbiature dei suoi principali protagonisti, se il Dio dell’Antico Testamento è tremendo nell’ira e nella Sua giustizia (la cacciata dall’Eden, il Diluvio Universale, Sodoma e Gomorra…), e non è da meno nemmeno quello del Nuovo Testamento (come fanno immaginare il Dies irae di Tomaso da Celano o l’episodio di Gesù che scaccia i mercanti dal tempio), possiamo concludere che sia la religione che la mitologia contemplano figure divine che ci offrono una visione dell’ira fortemente legata al senso di giustizia e alla violazione delle leggi, intendendola pertanto una reazione ‘giusta’ alle ingiustizie altrui [16]. La rabbia dunque come emozione forte e motore di eventi. Detto con un linguaggio più psicologico, essa può essere definita come risposta emozionale agli eventi avversivi della vita; sembra nascere nelle relazioni ed essere connessa a come ci si sente trattati dagli altri.
Le sue fonti sono virtualmente illimitate. Il vissuto emotivo di questo sentimento può derivare da azioni reali oppure solamente immaginate, da gesti compiuti da una persona (in ambito lavorativo per esempio un collega o un capo che muove critiche durante una riunione) o da eventi assolutamente impersonali (un’accidentale perdita di dati informatici); in ogni caso si assiste a un’amplificazione di queste cause al momento in cui incontrano la nostra più profonda dimensione, che inoltre le filtra e le interpreta esaltandone ancor più l’attivazione. Ecco che panico, paura, frustrazione, umiliazione – costellazione variegata di negatività – sfociano nella manifestazione finale: la rabbia, non solo come sfogo o eccesso da smaltire, ma come energia potenzialmente capace di modificare la situazione che l’ha generata, come propellente per riaffermare il Sé, purtroppo non sempre con produttività. Quando ci adiriamo il nostro stato d’animo cambia, come pure il nostro corpo, che invia messaggi inequivocabili compresi in ogni parte del mondo. La rabbia, dice Allcorn, è un fenomeno sociale e sono i valori culturali – appresi con la socializzazione – a governarne le espressioni [17].
‘Adirarsi è facile, ne sono capaci tutti, ma non è assolutamente facile, e soprattutto non è da tutti adirarsi con la persona giusta, nella misura giusta, nel modo giusto, nel momento giusto e per la causa giusta’.[18]
La deprecazione dell’ira è una costante nelle pagine di innumerevoli pensatori di ogni epoca: dal De ira di Lucio Anneo Seneca [19] agli scritti di filosofi stoici ed epicurei, dai trattati sapienziali medioevali alle riflessioni di Montaigne, Pascal, Goethe e Russel. Pare comunque lecito affermare che i due volti della rabbia – quello eroico-giustizialista e quello stoico-cristiano – infondo coesistano in ogni persona in conflitto col mondo esterno e con se stessa. Infatti quando il vortice possiede gli iracondi e li costringe ad agire, poiché stanno male [20] e credono di sapere cosa li farebbe star meglio (vendicare il torto subito, ripagare un’ingratitudine, come si dice: ‘cantargliene quattro’), essi sono accecati da una spinta violenta, sempiterni Erinni (o Furie) che perpetuano le loro collere al di là del tempo. Lo psicologo inglese James Averill [21] ritiene che quando una persona si arrabbia entri in un ruolo sociale transitorio, cioè impersoni l’arrabbiato secondo il copione che la società in cui vive gli ha suggerito. Forse è proprio una miscela di quanto ci narrano i miti, le religioni, la letteratura [22] o di quanto ci penetrano le norme sociali a costituire quella competenza emotiva che anche in questo caso ci guida nella reattività. L’ira è però praticamente sempre considerata ‘immorale’, nel senso che ognuno di noi si identifica con la parte razionale e ben educata di sé, ma si rifiuta di riconoscere come propria la parte passionale esasperata, della cui attivazione è sempre responsabile l’altro. È un modo per riaffermare se stessi e i propri valori [23].
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note
[1] Pensiamo agli scritti dell’antica Cina, del Tibet, dell’Egitto del Medio Regno – ben 42 peccati collegati ognuno a una divinità! – Libro dei morti.
[2] La prima donna ebbe un nome naturale: Eva, חַוָּה (khavàh), “vivente” (Gn 3:20). La traduzione greca dei LXX traduce il nome di Eva con Ζωή (zoè), “vita”. La “grazia della vita” avviene per grazia di Dio attraverso la donna.
[3] Dai classici dell’antichità a Shakespeare, fino a Freud e oltre.
[4] Penso per esempio a Giotto, che delineò nella Cappella degli Scrovegni a Padova la sequenza vizi-virtù, seguendo un’ispirazione filosofico-teologica; a Hieronymus Bosch, che dipinse un’originale rappresentazione allegorica dei sette vizi capitali, disponendoli sul piano circolare della struttura dell’iride – 1470-75 ca., oggi Museo del Prado, Madrid; a Pieter Bruegel il Vecchio, che nel 1557 realizzò la serie calcografica dei Sette peccati capitali.
[5] Da Les septe pechés capitaux, 1952, film a episodi, due dei quali firmati da Rossellini e De Filippo, a Seven, di David Fincher.
[6] I vizi possono essere catalogati in parallelo alle virtù alle quali si oppongono, oppure essere collegati ai peccati capitali che l’esperienza cristiana ha distinto, seguendo San Giovanni Cassiano e San Gregorio Magno. Sono chiamati capitali perché generano altri peccati, altri vizi. Sono la superbia, l’avarizia, l’invidia, l’ira, la lussuria, la golosità, la pigrizia o accidia. 1866.
[7] Talvolta giungono perfino ad essere considerati rispettabili, quando per esempio l’orgoglio si cela nell’autostima e l’ira si maschera nell’affermazione categorica.
[8] Non però nel senso usato in Also sprach Zarathustra, quando Nietzsche mostra il Super-uomo come colui che rifiuta la sottomissione.
[9] Deriva etimologicamente dall’essere sine nobilitate dei borghesi, che nell’ancient régime aspiravano a conquistare il rango degli aristocratici.
[10] Come invece fanno per esempio la superbia, la gola o la lussuria.
[11] Si pensi ad Atena verso Aracne, ad Apollo verso Marsia.
[12] Dante riserva agli invidiosi il castigo di vagare per una landa desolata, con gli occhi cuciti, costringendoli a guardare dentro se stessi, a riconoscere, come Sapìa Senese, fui de li altrui danni/più lieta che di ventura mia.
[13] Impareggiabile la sottigliezza di Shakespeare nel far scivolare la gelosia – il mostro dagli occhi verdi - nell’invidia, in Otello.
[14]Qana e qinah nell’Antico Testamento possono significare, secondo il contesto, ‘gelosia’, ‘invidia’ o ‘ardore’.
[15] Ritenendo che individui ed organizzazioni non creano miti, ma li sperimentano, li rappresentano, li vivono, li subiscono. Anche Ian Mitroff, dell’University of Southern California, offre un affascinante contributo relativo ai rapporti intercorrenti tra fenomenologia archetipica e organizzazione: a suo parere i processi organizzativi possono venir concepiti come delle relazioni che si sviluppano tra personaggi simbolici (i maghi, i pazzi, gli alti sacerdoti, gli amanti...). I nostri comportamenti insomma seguono schemi antichi e riproducono archetipi.
[16] Tra l’ira funesta del pelide Achille e l’ira di Dio dopo il peccato di Adamo, sembra che l’Occidente, che ha nella cultura greca e in quella giudaico-cristiana le sue matrici, rinvenga nell’ira, o come più frequentemente si dice nella rabbia, uno dei suoi segni distintivi (U. Galimberti, 2007, op. cit., pag. 17).
[17] Ai nostri giorni l’aumento esponenziale di episodi di aggressività e violenza organizzativa - riferiti sia dai ricercatori che dalle cronache - testimoniano la loro influenza sul clima organizzativo, che va a riflettersi anche su costi e produttività.
[18] Aristotele, Etica a Nicomaco.
[19] È sua opinione che l’ira sia la più turpe delle passioni, da rifuggire perché priva l’uomo della ragione.
[20] Si accumula rabbia, umiliazioni, ferocie, angosce, pianti, frenesie e alla fine ci si trova un cancro, una nefrite, un diabete, una sclerosi che ci annienta (C. Pavese, Il mestiere di vivere).
[21] Autore di un libro dedicato all’argomento: Anger and Aggression: An Essay on Emotion.
[22] I ‘furiosi’ eccellenti sono innumerevoli: dall’ariostesco Orlando al disneyano Paperino.
[23] Eppure vi sono in questo differenze di genere. Ancora nel terzo millennio, una donna arrabbiata è arpia, strega, bisbetica, isterica, megera mentre l’uomo si adira per una giusta causa, perché non si fa sottomettere, perché ha i cosiddetti attributi virili. E ancora: una donna strilla o sbraita, mente un uomo grida o urla. Le donne in effetti preferiscono interrompere il contatto degli occhi e chiudere un diverbio e si sentono colpevoli - più degli uomini - per la rabbia e per non saper reagire adeguatamente tanto da piangere (Freud andava oltre ed attribuiva loro evitamenti - maldicenza e ostracismo sociale - e spostamenti della rabbia… su altra persona, non avendo il coraggio di affrontare quella che l’ira l’aveva suscitata!) e nel tradimento/abbandono tendono a colpire sul piano economico e affettivo (tipico il ricatto dei figli), mentre gli uomini reagiscono anche talvolta sul piano fisico.