L’antropologia religiosa e il Sacro
Conoscere il sacro non significa vedere cose nuove, ma vedere le cose in modo nuovo.
F. Ostaseski

Sacro, derivando etimologicamente dalla radice indo-europea sac-/sak-/sag-, ‘attaccare, aderire, avvincere’, indicherebbe il senso di ‘cosa avvinta alla divinità’ e, per estensione, ‘consacrata a un dio’; altri studiosi invece propenderebbero per una derivazione dalla radice sanscrita sac-ate, ‘seguire, accompagnare’ (nel Rigvèda, anche ‘adorare’, specialmente sotto la forma accessoria e dialettale sap-ati, ‘servire, onorare’ una divinità - nota 1). Sull’Homo religiosus in quanto creatore, ma anche utilizzatore dell’insieme simbolico del Sacro, si concentra l’interesse dell’Antropologia religiosa, che indaga anche sull’altra sua fondamentale caratteristica: quella di essere portatore di credenze religiose che disciplinano la sua intera vita e i suoi comportamenti. Inevitabilmente ogni religione legge in un modo particolare e soggettivo la condizione umana, per cui il raggio d’azione della ricerca di questa disciplina specialistica dell’Antropologia risulta essere ad ampio spettro.
Nel libro della Genesi, per esempio, il focus è sull’uomo creato a immagine e somiglianza di Dio e l’antropologia biblica da qui prende il suo avvio; da questa condizione primigenia, il destino dell’uomo sarà poi quello di orientarsi a Cristo (l’Uomo-Dio, il Dio che si è fatto carne), scopo finale della sua esistenza terrena. La speranza di una vita eterna è la contropartita offerta al limite mortale dell’uomo. Non è questa la sede per affrontare nel dettaglio l’antropologia cristiana elaborata dai Padri della Chiesa o dai pensatori dell’Umanesimo (tra tutti: Pico della Mirandola, che riteneva l’uomo faber sui, trasformatore di se stesso e del mondo), ma vorrei invece nominare Rudolf Otto, teologo luterano e storico delle religioni, che cercò di mettere un freno alle dottrine positiviste dell’800 che escludevano il soprannaturale e il mistero. Da Schleiermacher (2), filosofo e teologo, prese per lo più tre principi, che nel tempo elaborò: la teoria delle idee necessarie (Dio, anima e libertà), il mantenimento dell’integrità del mistero, la necessità del simbolo per prendere contatto con il divino. Nel 1900, incontrò lo storico delle religioni svedese Nathan Söderblom ed insieme avviarono una ricerca sull’esperienza religiosa espressa dall’umanità nel corso della sua storia; risale al 1917, la pubblicazione di 'Das Heilige. Über das Irrationale in der Idee des Göttlichen und sein Verhältnis zum Rationalen' ('Il Sacro. L’irrazionale nella idea del divino e la sua relazione al razionale'), in cui Otto partendo dal sacer arriva al numinosum. Tre gli aspetti a suo avviso fondamentali del Sacro, alla base dell’esperienza religiosa dell’uomo (3):
il
numinosum, scoperto dall’uomo lungo un asse di quattro diversi vissuti: sentimento di inferiorità; fascinazione e terrore (fascinans et tremendum); mistero (4) del ‘totalmente Altro’ (mysterium - ciò che è nascosto, straordinario, inconsueto, inconoscibile); rapimento mistico;
il
sanctum, percezione del valore del numinosum,
un ‘a priori’ nell’uomo che gli consente di comprendere il numinosum e quindi di averne esperienza.
Ecco che Otto contrappone al postulato della ‘coscienza collettiva’ di Durkheim quello della ‘rivelazione interiore’, attuata mediante la lettura dei segni del Sacro.
Altro grande studioso di queste tematiche, considerato il più grande storico delle religioni del suo secolo (il Novecento), fu Mircea Eliade. Individuò due macrocategorie tipologiche storiche di Uomo: l’Homo religiosus che, convinto dell’esistenza di una realtà assoluta – il Sacro – che trascende questo mondo, ma vi si manifesta (‘ierofania’), santificandolo e rendendolo reale, assume in conseguenza a questo credo una modalità specifica di esistere; l’uomo areligioso, caratterizzato dal rifiuto di ogni trascendenza. Il sociologo e antropologo francese Roger Bastide, attento al problema dei cambiamenti e dei mutamenti (5), sottolinea che Eliade ha messo in luce la persistenza degli archetipi attraverso gli sconvolgimenti religiosi, da cui si evince l’importanza dell’Homo religiosus che, pur permanendo, cambia.
Julien Ries ci suggerisce anche un’altra riflessione: l’Homo religiosus è anche Homo symbolicus. I simboli (segni speciali, pluristratificati, contraddistinti da un «più di senso» rispetto al nudo segno; indici; indicatori di qualcosa di più complesso all’interno di un sistema culturale - dal greco syn ballein, ‘mettere insieme – nota 6 –, concludere’), dotati di un significato storico che muta, mediano arbitrariamente (come tutti i linguaggi) tra i bisogni e i consumi, tra l’uomo e il mondo; costituiscono insomma una sorta di carta d’identità dell’Homo sapiens, il cui l’immaginario è origine della sua stessa creatività, fin dall’antichità (per esempio, proprio il simbolismo cosmico gli ha permesso di percepire le ierofanie).
Anche il filosofo francese Paul Ricœur (7), che ha dedicato la sua attenzione soprattutto al linguaggio della poesia, al mito e alla religione, ha evidenziato che i simboli possono contribuire a recuperare il senso ontologico e trascendente dell’esistenza umana. Ecco che l’ermeneutica si fa azione critica, restauratrice, interpretando e decodificando per un recupero del Sacro. Infatti
non può esistere un linguaggio simbolico senza ermeneutica. Anche se forse l’immediatezza della credenza è stata ormai irrimediabilmente persa e se non è più possibile vivere i grandi simboli del Sacro secondo la credenza originaria, l’uomo di oggi può almeno tendere a una seconda ingenuità, interpretando per poter nuovamente intendere. Insomma: ‘bisogna comprendere per credere, ma bisogna credere per comprendere’, dato che chi interpreta non si accosterà mai infatti a ciò che dice il suo testo se non vive nell’aura del significato interrogato. Ma all’uomo è dato di credere solo interpretando, il che si pone come la modalità attuale della credenza nei simboli, espressione dell’affanno – ma anche del suo rimedio – in cui si muove la modernità. È dunque grazie al circolo dell’ermeneutica che esiste ancora oggi la possibilità di comunicare col Sacro, esplicitando quella pre-comprensione che anima necessariamente l’interpretazione.
Come il ‘simbolo’, anche il ‘mito’ e il ‘rito’ (tutti e tre costanti del Sacro) rappresentano gli strumenti mentali e gli elementi essenziali del linguaggio del Sacro (e della sua mediazione), di cui l’Homo religiosus si serve per vivere quell’esperienza personale totalizzante, che gli permette di mettere ordine nella sua realtà smarrita e di dotarla di una pienezza di senso. Il mito (mythos: ‘parola’, ‘leggenda’; il significato a cui si lega la parola quando diventa leggenda) postula l’esperienza della relazione con il trascendente attraverso il passaggio dal tempo profano al tempo sacro delle origini; il rito (ritus: ‘andamento, disposizione, usanza’, connesso al vocabolo sanscrito ritis, sinonimo di dharma, la legge fondamentale intrinseca alla natura – nota 8) è una sorta di consacrazione, che rende partecipe la natura umana a un principio che la supera (da qui: cerimonia, usanza religiosa, costume).
Dunque, riassumento: l’Homo religiosus, che non è quello unicamente legato alle più antiche forme di sepoltura o di arte magico-religiosa  (Homo dapprima habilis, poi erectus, poi ancora sapiens e infine sapiens sapiens), è symbolicus, in quanto capace di simbolizzare, di pensare, di cogliere le ierofanie negli elementi della natura, nella volta celeste e ovunque percepisca qualcosa/qualcuno che lo trascende. Ma è symbolicus anche l’
Homo loquens come pure lo è l’Homo tecnologicus: i simbolismi sociale, funzionale e spirituale (più legato all’arte e alle sepolture) pertanto sono tutti presenti e valorizzano - oltre a darle senso - l’esistenza dell’uomo, produttore di cultura e sostrato dell’esperienza religiosa.
L’idea di Homo religiosus non è soltanto uno strumento euristico per individuare pratiche e idee religiose. È invece, in qualche modo, il punto di partenza e il punto di arrivo della ricerca, e comporta almeno altre due componenti: l’idea che l’uomo è naturaliter religiosus, e cioè che la religiosità è inscritta nel suo essere naturalmente e necessariamente, e l’idea che la completezza, la pienezza dell’esperienza umana non può essere conseguita che realizzando e portando a compimento tale religiosità naturale. Nella prospettiva dell’Antropologia del Sacro di Ries, allora, l’alternativa all’Homo religiosus non può essere l’uomo laico, o l’uomo che trova la sua ragione di vivere nell’impegno della vita quotidiana, o che ripone tutta la sua fiducia nella scienza o nella tecnologia: è il nulla, la perdita della possibilità di cogliere l’incanto e l’ordine del mondo, l’annientamento dell’uomo sottomesso alla storia che lo annulla, lo decostruisce e lo riduce inesorabilmente in polvere.
Per concludere, un accenno alla religione come ‘ideologia della comunità’, come si evince dagli studi (in senso durkheimiano) dell’antropologo australiano Lloyd W. Warner (9), condotti su alcune piccole comunità cittadine americane (anni Cinquanta del secolo scorso), per valutare la religione come simbolo d’appartenenza nelle società moderne e non solo in quelle di rilevanza antropologica. Professare una fede dunque significa mostrare di appartenere a un gruppo sociale, sia nelle tribù aborigene australiane riunite attorno a un totem, che in una comunità cittadina dedita a una pratica religiosa. Warner tuttavia rileva altri fatti; la religione:
➻ fornisce anche le ragioni morali e culturali delle differenze tra i cittadini di una comunità, da cui i motivi dell’esclusione;
➻ rafforza l’unità della famiglia;
➻ è servita come ‘ideologia della comunità’ nelle forme di nazionalismo religioso (ossia quando si è assistito alla creazione di uno stato nazione su base religiosa):
la religione e il Sacro allora possono influenzare profondamente le categorie politiche classiche. Il culmine della sacralizzazione della politica viene raggiunto nei regimi totalitari, che si affermano come ‘religioni politiche’ (10), attribuendosi la funzione propria della religione di definire il significato della vita e il fine ultimo dell’esistenza.

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note
(1) Così come accade nel latino, per cui obsequiare (‘ossequiare’) deriva da sequi (‘seguire’).
(2) Se la religione per lui è ‘sentimento e gusto per l’infinito’, la fede, esperienza vitale dell’uomo, è il luogo in cui avviene l’orientamento alla coscienza di Dio; condizioni necessarie per conoscere la natura sentimentale dell’esperienza religiosa sono l’intuitivo e l’alogico. Il contributo di Schleiermacher interruppe il flusso illuminista caparbiamente antireligioso.
(3) L’iniziazione, il pellegrinaggio, la contemplazione della volta celeste, le celebrazioni cultuali etc.
(4) Il ‘mistero’, tremendum poiché trapassa l’anima a causa della maestosità; fascinosum in quanto comporta attrazione gioiosa dell’uomo nei confronti del divino; augustum perché ‘altro’ dall’uomo, è il linguaggio della divinità. Guardare verso il ‘mistero’ presuppone la presenza di un coraggio spirituale. La disciplina ascetica è ritenuta dai mistici essere una via gnoseologica verso il mistero. Per il tedesco luterano Jürgen Moltmann, ‘teologo della speranza’, il mistero è interpretabile attraverso la ‘determinazione’ dell’uomo, fatta di speranza, pazienza e perseveranza.
(5) La ricerca antropologica, a suo parere, deve farsi carico di osservare la situazione globale di una società in cui confluiscono presente, passato e futuro, e non limitarsi allo studio della considerazione del suo’ presente’. 
(6) Anticamente si disse ‘simbolo’ la tessera hospitalitatis, cioè l’anello o un altro contrassegno che veniva spezzato in due parti, le quali, conservate da due famiglie, servivano poi sempre alle persone ad esse attinenti per comprovare l’ospitalità data e ricevuta. Anche il ‘Credo’ o ‘Simbolo apostolico’ (Credo in Deum Patrem omnipotentem, Creatorem caeli et terrae etc.) antichissima sintesi della fede cristiana, è da intendersi nel senso di ‘cosa messa insieme’/patto religioso.
(7) P. Ricœur, Finitude et culpabilité, II, La symbolique du mal, Paris, 1960 - trad. it. Finitudine e colpa, Il Mulino, Bologna, 1970, pp. 626-628. Ricœur ritenne fondamentali i tre ‘maestri del sospetto’, Marx, Nietzsche e Freud, che definirono come falsa scienza quella di origine cartesiana, che avrebbe dovuto invece offrire certezze (i tre citati autori mostrarono che alla base delle grandi certezze stavano rispettivamente i valori economico-sociali, la volontà di potenza e l’inconscio). Nelle riflessioni di Ricœur, l’Ermeneutica assunse grande rilievo: al suo centro sta il simbolo, valorizzato attraverso il sogno - come dall’intuizione freudiana -, sogno che è ‘regione del senso duplice’ e che pertanto chiama in causa l’interpretazione (in ogni simbolo vi è un significato manifesto ed uno latente).
(8) Radice ri-: ‘andare’, ‘scorrere’ (es. rivo), ‘procedere’.
(9) Suo è il concetto per cui l’appartenenza di una persona a una particolare classe sociale (stratificazione sociale) è determinata in base alla posizione che alla persona è assegnata da altri membri della comunità (teoria reputazionale).
(10) Da non confondersi con le ‘religioni civili’, che fanno appello alle virtù civiche dei cittadini e dunque mantengono sempre il rispetto dei diritti individuali. Il concetto di ‘religione civile’ (complesso di credenze, simboli e rituali attinenti a cose sacre e istituzionalizzati in una comunità) è stato proposto dal sociologo americano Robert Bellah, in un saggio pubblicato per la prima volta nel 1967 (Varieties of Civil Religion): l’autore definisce con precisione un aspetto importante della vita pubblica della repubblica statunitense, cioè la presenza di un insieme di valori condivisi che innerva in modo positivo la società americana in un intreccio particolare tra religione e politica. Bellah ritiene che i ‘luoghi’ in cui si condensano i valori della religione civile siano i grandi atti costitutivi della nazione (Costituzione, Dichiarazione d’indipendenza) o i grandi discorsi pubblici dei presidenti, in particolari momenti critici o fondamentali della vita del Paese (per es. discorso di insediamento di Kennedy nel 1961, che si concludeva con un sintetico riassunto del significato essenziale del costituzionalismo americano: «I diritti dell’uomo non derivano dalla generosità dello Stato, ma dalle mani di Dio»), o, ancora, nelle narrazioni dei momenti fondativi mitici degli Stati Uniti (per es. l’arrivo dei padri pellegrini, a bordo della Mayflower, nel New England).
Il 3 gennaio 2008, Barak Obama, candidato alla presidenza degli Statu Uniti, seguendo il modello di un universalismo religioso secolarizzato, si rivolgeva al proprio pubblico di elettori affermando: 'L’America rammenta cosa significa sperare', e concludeva dicendo: 'Siamo di nuovo disposti a credere!' E ancora: il giornalista Alexander Stille, in un articolo, pubblicato su La Repubblica (21 gennaio 2009), intitolato 'La religione civile di Barack', a proposito della cerimonia di insediamento del presidente Obama, ha scritto: ''Il giuramento sulla Bibbia di Lincoln, i riferimenti a Dio, la lunga preghiera che ha preceduto il discorso del neopresidente, lo sfrontato patriottismo e il sentimento sublime di una finalità nazionale specificamente americana sembrano qualcosa di profondamente estraneo per molti europei. Oltre a esporre elementi familiari del suo programma, Obama ha fatto riferimenti specifici alla grandezza dell’America, a Dio e ai padri fondatori. Quello a cui stanno assistendo è una tradizione retorica peculiare, ma importantissima, appropriatamente definita la ‘religione civile dell’America’.

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