Innumerevoli filosofi avevano duramente criticato le credenze religiose, ma nessuno, prima di Freud, era arrivato a ‘dissolvere’ la religione in patologia, illusione, in cui l’uomo di fede smarrisce il senso della realtà a vantaggio di fantasie psichiche, che possono trasformarsi in nevrosi collettiva.
Per Freud, che scrisse molto sull’argomento, l’idea di Dio non è una menzogna, ma un prodotto dell’inconscio interpretabile psicanaliticamente: Dio è concepito come una figura paterna all’ennesima potenza. Sta dunque nella debolezza dell’uomo, impotente di fronte alle forze della natura e degli istinti che gli insorgono dentro, l’origine del sentimento religioso. Nella religione si attuerebbe pertanto un ripetersi delle esperienze vissute durante l’infanzia: di fronte alle forze che lo minacciano, l’adulto si comporta come ha imparato a comportarsi da bambino, quando aveva paura e trovava conforto nella figura ammirata e temuta del padre. Dato che il simbolismo religioso e la religione sono elementi costanti e fondamentali dell’uomo, appartenendo ai bisogni psichici più profondi, sono ineliminabili.
L’International Association for the Psychology of Religion ( nternationale Gesellschaft für Religionspsychologie) [1] è un’organizzazione neutrale dal punto di vista religioso e confessionale, che si propone di stimolare ed approfondire la ricerca sul fenomeno religioso, promuovendo la comunicazione tra gli studiosi di Psicologia della religione di tutto il mondo. A Vienna, durante il congresso IAPR 2009, si sono riuniti membri del Department of Practical Theology and Psychology of Religion e della Facoltà di Psicologia dell’Università di Vienna: molti i relatori, anche italiani, che hanno affrontato il tema del sentimento religioso connesso ai legami dell’attaccamento.
Lee A. Kirkpatrick [2], massimo esperto su queste tematiche, ha elaborato una teoria partendo dalle somiglianze rilevabili tra le esperienze di relazione madre-bambino e le esperienze religiose: Dio (immagine paterna o immagine materna?) può essere visto come rappresentazione di una figura di attaccamento ideale, adeguata, simile ad un genitore. Dio ovviamente è: Amorevole, Protettivo, Affidabile, Disponibile e sempre presente.
Usando a titolo di esempio la religione cristiana (monoteista), Kirkpatrick sottolinea che la relazione con Dio è un rapporto personale, che è anche una relazione interattiva d’amore (vi sono sia la ricerca che il mantenimento del contatto con Lui, attraverso la preghiera, il frequentare i luoghi sacri, i sacramenti – in primis l’Eucarestia –, il sentirsi Chiesa), con una forte componente emotiva e priva di quella fisica; tale relazione d’amore è assimilabile a quella tra genitore e bambino.
Dalle Sacre Scritture emerge che Dio è rifugio ideale nel pericolo, roccia o àncora di salvezza; accoglie la richiesta di chi confida in Lui (è sensibile); segue la vita dei Suoi figli fin dal grembo della madre (è, come direbbe Bowlby, ‘base sicura’; per antonomasia in questo caso). Insomma: ogni creatura, anche la più piccola, è nelle mani di Dio, come se fosse la Sua unica preoccupazione.
Kirkpatrick approfondisce ancora la ricerca su Dio come figura d’attaccamento [3] e rileva che, in alcune situazioni drammatiche della vita (separazione o divorzio, lutto, crisi adolescenziali, relazioni insoddisfacenti con le figure parentali, guerre, etc.), gli individui possono canalizzare l’insufficiente apporto di sicurezza da parte delle figure di attaccamento disponibili nell’individuazione di Dio quale possibile figura sostitutiva (rafforzamento della fede o eventuale conversione).
Non essendo questa la sede per entrare nel dettaglio della raffinata analisi psicologica di Kirkpatrick circa le modalità attraverso cui i ‘modelli operativi interni’ [4] si riflettono nell’immagine di Dio che il soggetto si costruisce, credo invece sia interessante sottolineare quanto lo studioso conclude circa gli effetti dell’esperienza di fede sull’adattamento:
- si abbassano i livelli di ansia e di tensione;
- aumenta la possibilità che il credente, confidando su una ‘base sicura’, trovi con maggiore facilità nuove soluzioni adattive di vita;
- si stabilisce una correlazione positiva tra il benessere del credente e alcuni aspetti della sua esperienza religiosa;
- diminuisce il senso di solitudine e depressione nei soggetti con attaccamento sicuro a Dio, rispetto a quelli che hanno stabilito una relazione insicura con Dio;
- si assiste a un incremento di tali benefici quando il soggetto gode di un attaccamento sicuro nei confronti di Dio e del proprio partner;
- aumenta la probabilità, grazie all’esperienza di attaccamento sicuro verso Dio, per cui l’individuo sviluppi relazioni stabili di tipo sicuro con altri partner.
Mario Aletti [5], psicologo della religione, presente al già citato congresso IAPR 2009 (Vienna), sottolinea che dal dibattito internazionale emerge che l’attaccamento è solo una delle componenti dell’organizzazione psichica relazionale e quindi della relazione con Dio (religione) e che l’incidenza degli ‘attaccamenti multipli’ lungo il ciclo di vita raccomanda un’interpretazione non rigidamente predittiva della relazione con Dio; infine ritiene, concordando con molti altri ricercatori, che l’approccio psicoanalitico e quello della teoria dell’attaccamento, in quanto focalizzati su due aspetti diversi del complesso fenomeno umano della religiosità potrebbero coesistere e fornire specifici contributi in un modello multilivellare integrato di Psicologia della religione, senza la pretesa di ridurre l’uno all’altro contenuti e metodologie.
Giuseppe Mininni e Rosa Scardigno, del Dipartimento di Psicologia dell’Università degli Studi di Bari, invece hanno indagato sul ruolo della religione come risorsa di significato di tutto l’arco di vita [6]: in ogni fase dell’esistenza, infatti, le persone hanno a propria disposizione un certo numero di risorse di significato con cui possono fronteggiare i compiti evolutivi. Dall’età dei progetti - in cui ci si guarda attorno per esplorare nuovi orizzonti -, all’età dei bilanci - in cui invece ci si guarda alle spalle alla ricerca di risposte -, la religione può funzionare come un prezioso ‘sistema di significato’ (Park, 2005) che consente di definire obiettivi e fornire interpretazioni e orientamenti positivi alla propria esistenza. Da una fase in cui i bambini devono comprendere le differenze tra la figura di Dio e i genitori, a una fase in cui il ‘sé religioso’ interagisce in modo dialogico con altri sé, fino al periodo in cui il significato della vita può essere filtrato dall’affiliazione religiosa, è evidente il passaggio da una religiosità ‘ereditata’ ad un modo più ‘personalizzato’ di vivere la fede tipico di quanti negoziano e co-costruiscono significati in relazione alle rispettive ‘sacche culturali’ (Napier, 1994) [7].
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