Pochi uomini sono divenuti leggenda mentre erano ancora vivi e certo l’ufficiale inglese Thomas Edward Lawrence (o “Lawrence d’Arabia”, come è noto in tutto il mondo dopo il famoso omonimo film di David Lean, interpretato da Peter O’Toole; sette Oscar: era il 1962) ne è un illustre esempio, pur risultando la sua figura divisa tra avventura & letteratura, mistero & esibizionismo.
Di questo archeologo, scrittore, tenente colonnello [1], agente segreto, che rischiò la vita in giro per il mondo, ma morì, un giorno di maggio, per un incidente occorsogli in sella alla sua motocicletta Brough Superior SS100, mi sono fatta l’idea che fosse un poeta tormentato e inquieto con la testa incendiata da miraggi e dal culto del sole e della morte, un po’ eccentrico forse, ma d’animo gentile, chiuso in una solitudine interiore dolorosa, ma con un sorriso aperto capace di concedere tutto a un amico. La sua voglia di urlare per aggredire il silenzio di una vita che non voleva vivere si appagò nelle distese fantasmagoriche del deserto, che prima di tutto è una condizione dello spirito che impone a chi lo vive un’ascesi necessaria: l’esaltazione della fatica, la disciplina dell’astinenza, la trasformazione dei bisogni nella purezza del desiderio. [2]
Lawrence non amava le donne [3], forse perché non voleva appartenere a nessuno. Ma finalmente trovò l’amore. Amore per quel mondo sabbioso di erosioni multiformi, per quell’ambiente incantatore e avvolgente, tutto da ammirare, da temere, da gustare. Rinunciò al suo essere inglese, alle sue tradizioni e divenne arabo “dentro”. E naturalmente, come si sa, un eroe.
Lawrence parte dallo studio accademico dell’arte per avvicinarsi alla cultura araba e da qui approda alla religione invisibile. Lui, coraggioso, generoso e compassionevole, era sfrenato, famelico di assoluto, convinto come era che solo l’energia spirituale sa realizzare miracoli.
Lui era nel vento di quella valle lontana da ogni richiamo occidentale, di quello scenario di arenaria rossa, di montagne d’opale che si fanno continuamente sabbia, di catene sovrapposte di roccia rugginosa.
Lui era in quella evanescente “valle della luna” – Wadi Rum – e raccontava incredulo al suo docile e fedele delul, il suo dromedario dalle lunghe ciglia, quanto coraggio quella vita nuova gli aveva donato, quanto piacere aveva provato nel riunire le tribù rivali per conquistare Aqaba, nodo strategico militare affacciato sul Mar Rosso.
Il suo galoppare nella storia di quei luoghi, tra i beduini cui oramai tanto assomigliava, fu la sua realtà.
E a Wadi Rum, Lawrence d’Arabia divenne uomo contento di essere uomo. Forse senza nemmeno lui stesso comprendere del tutto di aver giocato il ruolo di salvatore degli arabi dopo che la Gran Bretagna aveva reso impossibile la grande nazione araba. Nazione che ancora oggi è un sogno irrealizzato. Con ‘I sette pilastri della saggezza’ attesta senza ombra di dubbio l’insostenibile posizione dell’eroe che combatte per così dire travestito, che anela alla unificazione nazionale degli arabi, sapendo tuttavia di lavorare per la spartizione dell’Arabia tra le potenze che vinceranno la guerra (Francia e Inghilterra). ‘Tutti gli uomini sognano, – scrive – ma non allo stesso modo’. Lawrence non compie alcun tentativo di nobilitare il suo ruolo e, da intellettuale quale è, opera una sorta di dissoluzione dell’azione attraverso la letteratura. Ciò che renderà straordinario il suo pur frainteso capolavoro è che non si tratta del resoconto di un’avventura né di un ‘memoire’, ma di un poema epico in prosa, in cui la talentuosa penna di Lawrence stratifica reminiscenze classiche, conoscenze storiche e visioni mistiche nel ‘frame’ di una vicenda politica e militare. Il libro potrebbe essere inscritto in una fenomenologia della finzione: sulla scena della guerriglia, infatti, gli attori si battono per scopi illusori. Nel cammino che lo porta dal ruolo di eroe a quello di ‘traditore’, l’identità stessa di Lawrence, o meglio del suo io narrante, si sgretola.
Conservo dentro di me questo ritratto di condottiero leggendario, tanto audace capitano di ventura quanto indomito e spericolato agente segreto, cui sono finalmente, forse, riuscita a dare un’anima, attraversando io stessa quella stupefacente valle della Giordania, dove lui consacrò se stesso. Là, a Wadi Rum, il tempo è curiosamenre rallentato per farti ascoltare il limpido scorrere dei pensieri; là, sotto quella incredibile luna bianca contro il manto cobalto del cielo tersissimo, nella scia della sua luce che avanza lentamente su ogni granello di sabbia, ti senti infatti invadere da un senso puro di libertà.
Libertà di conoscere, di gettarti a capofitto in una causa che ritieni giusta e degna di essere vissuta, di apprezzare ciò che hai la fortuna di poter vedere, scoprire, sentire dentro, esperire.
Alla luce dei raggi lunari si prova, però, anche un vasto senso di limitatezza: ti senti davvero piccola al paragone di quelle immensità ombreggiate. Colmo di stelle che parevano fissarmi stupite, il buio mi faceva venir voglia di dilapidare il tempo, senza fretta, e pensavo a quanto anch’io sia nei piani di Dio, come quella sabbia color cipria, più che non nei miei. Sono il Suo disegno. Nel deserto io sola non sono nulla, mentre persino l’acqua è molto più di me, anzi spesso è tutto. Ha ragione Antoine de Saint-Exuperì quando afferma: “Mi è sempre piaciuto il deserto: ci si siede su una duna di sabbia. Non si vede nulla. Non si sente nulla. E tuttavia qualcosa risplende in silenzio. Ciò che lo abbellisce è che nasconde un pozzo in qualche luogo. Si tratti di un prato, delle stelle o del deserto, quello che fa la loro bellezza è invisibile”.
Ho una rimembranza del sole al tramonto, presenti ancora i miei genitori che non sono più terreni, quando inciampava ormai in una piccola ferita tra due alte e dentellate montagne: le sfumature violacee erano l’ultimo richiamo a quell’indimenticabile giorno trascorso. E mi sorprendo a farmi oggi la stessa domanda di allora: da dove vengono i miei pensieri? Dai continenti del sogno, dai dizionari che ci costruiamo, dai ricordi?
Là, nella splendida bellezza del deserto di Lawrence, la sabbia si stava raffreddando per il sopraggiungere della notte e in quello spettacolo pieno di maestà mi sentivo profondamente appagata. Arabeschi ed absidi di roccia, scenari primordiali ardenti di luna, silenzi che spiace infrangere aiutavano a pensare che Dio, o Allah, come lo chiamano da quelle parti, con la Sua grendezza aveva saputo mettere persino in un deserto il mistero della Bellezza e della Vita.
Io ti amavo, e così trassi queste maree d’uomini nelle mie mani
e scrissi il mio volere in stelle traverso il cielo
Per conquistarti la Libertà, la splendida casa dai sette pilastri,
che i tuoi occhi scintillassero per me
al nostro giungere.
e scrissi il mio volere in stelle traverso il cielo
Per conquistarti la Libertà, la splendida casa dai sette pilastri,
che i tuoi occhi scintillassero per me
al nostro giungere.
Poesia di T.E. Lawrence, in cima ai Sette pilastri della saggezza, nella traduzione di Cristina Campo.
[1] Traduttore dell’Odissea, è sempre attratto da esperienze umili o umilianti, scrive di lui Alessandro Dal Lago: da giovane vagabonda, come un moderno pellegrino, per le città di Siria e d’Egitto e, dopo la guerra, presta servizio come soldato semplice in aviazione e nel corpo dei carristi. Promosso colonnello alla fine dell’insurrezione araba, è membro della delegazione inglese alla Conferenza di Parigi, dove si adopera per la creazione di uno stato arabo indipendente. Fallito il progetto e abbandonate la carriera militare e la diplomazia, conduce per qualche tempo la vita del bohémien. Sarà sempre di casa nel salotto di Lady Astor o da G. B. Shaw, e si farà assistere negli inizi letterari dai suoi amici poeti, da Forster, Shaw e Kipling.
[2] Ai margini del deserto, nota spesso Lawrence, sono fioriti i profeti delle grandi religioni monoteistiche. L’asprezza della vita nel deserto, che consente alle religioni di depurarsi dei loro contenuti magici o tellurici è la calamita di ogni aspirazione alla trascendenza (A. Dal Lago, ‘Le nostre guerre’).
[3] La sua vita costituì una sorta di cammino di espiazione della sua nascita (il 16 agosto 1888 a Tremadog, una cittadina a pochi chilometri dalla costa orientale gallese), conseguenza di una unione “illegittima”, di un nobile anglo-irlandese (sir Thomas Robert Tighe Chapman), con la sua governante, o insegnante privata, scozzese Sarah Junner Lawrence (è da lei che il minuto ed esile figlio, biondo di capelli, chiaro di carnagione e con due grandi occhi azzurri, prenderà il cognome), colpa gravissima nell’Inghilterra dell’epoca, che andava ad aggiungersi a quella della sua omosessualità. Ecco perché il vero protagonista de I sette pilatri della saggezza è il cavaliere errante con la colpa oscura da cui deve riscattarsi.