Le sacre Scritture pur accennando a una suddivisione gerarchica delle creature angeliche, non ne offrono certo un’organica visione. Nei primi secoli del cristianesimo tuttavia la questione fu largamente esaminata da parecchi autori: ecco occuparsene i “Cappadoci” (Basilio di Cesarea, Gregorio di Nazianzo e Gregorio di Nissa), Giovanni Crisostomo, Cirillo di Gerusalemme, S. Agostino, Gregorio Magno... tutti autorevoli teologi ed angelologi. Alle sette classi enumerate nel Nuovo Testamento (nota 1 - Angeli, Arcangeli, Troni, Dominazioni, Principati, Potestà, Virtù) vengono aggiunti verso il 330 i Cherubini e i Serafini dell’Antico Testamento (nota 2): si impose pertanto un riordinamento generale di questi gruppi di esseri celesti. Il merito d’aver ideato l’armoniosa struttura del mondo angelico spetta comunque al cosiddetto Pseudo-Dionigi, massima autorità cristiana in questo campo. In Atti 17,34, è menzionato un tale Dionigi, personaggio ragguardevole essendo primo vescovo di Atene e discepolo di S. Paolo: gli sono attribuiti quattro trattati (“De divinis nominibus”, “De theologia mystica”, “De coelesti hierarchia”, “De ecclesiastica hierarchia”) e dieci lettere. Ma in occasione della grande conferenza religiosa tenutasi a Costantinopoli nel 533, Ipazio di Efeso iniziò a dubitare dell’autenticità degli scritti dell’illustre ateniese; papa Martino I, in seguito invece, difendendoli strenuamente, li introdusse in Occidente e la loro fama si diffuse tanto rapidamente che per tutto il Medioevo nessuno osò più riparlare del loro carattere apocrifo. Secondo alcuni studiosi gli scritti di Dionigi l’Areopagita sarebbero piuttosto da ascrivere a un tale Sinesio, cristiano ma educato alla scuola di Proclo, filosofo neoplatonico; oppure – secondo altri – sarebbero stati composti verso la fine del V sec., contenendo essi espressioni adoperate nel Concilio di Calcedonia (451) e nell’Henotikon dell’imperatore Zenone, promulgato nel 483. Lasciando dunque agli esperti la parola definitiva circa l’esatta attribuzione a questo o quell’autore degli scritti in questione, si possono considerare presumibilmente composti in Siria, verso l’anno 500 da uno scrittore certamente influenzato dal sopracitato Proclo (412/487), grande pensatore che formulò la “teoria del ternario”, secondo la quale la Legge, che governa la creazione di tutte le cose, procederebbe secondo tre momenti distinti: “partenza” o meglio “permanenza” (ogni Causa rimanendo ferma, in permanenza appunto, produrrebbe gli esseri da essa conseguenti); “processione” (in cui gli esseri generati, uscirebbero dal Principio, mediante un suo processo di moltiplicazione di sé); “ritorno” (le cose / gli esseri prodotti, avendo affinità col Principio loro generatore, ad esso tenderebbero, desiderando convertirsi a esso). Questo processo circolare, in cui la coesistenza dei tre momenti sarebbe perenne, costituisce l’asse portante della metafisica di Proclo: Dionigi avrebbe adottato e ricalcato questo schema per affermare che dalla Potenza di Dio derivano le potenze deiformi degli ordini angelici (De divinis nominibus, VIII,4,335). E così dall’Uno si passa al molteplice, dall’intelligibile all’esistenza concreta, da Dio al mondo. Naturalmente Dionigi depurò la concezione di Proclo, spogliandola di tutti quegli argomenti che non si adattavano al Cristianesimo, mettendo in grande rilievo soprattutto la trascendenza e la superiorità assoluta di Dio, Uno, Perfetto e Trino. L’Uno che è Dio, causa di tutte le cose, definisce da sé la molteplicità; dalla Sua Bontà, derivano gli ordini e le funzioni degli angeli, le anime e le loro facoltà, le cose animate ed inanimate... in un sistema gerarchico di esseri, che ha avuto un’efficacia enorme nella determinazione di alcuni dogmi cattolici. La creazione divina è pertanto racchiusa nei limiti di una gerarchia architettata fantasticamente, in cui è comunque visibile il distendersi dell’Unico principio divino, che in sé contiene tutti gli esseri creati. Il fine della gerarchia consiste nell’assimilazione e nella congiunzione con Dio; Gesù è al centro, essendo tra il Dio trascendente e gli altri esseri. Ecco finalmente le gerarchie degli esseri superiori all’uomo, distribuite in tre gruppi: 1) Troni, Cherubini, Serafini; 2) Signorie, Potenze, Autorità; 3) Principati, Arcangeli, Angeli.
A questa celeste gerarchia corrisponderà una gerarchia ecclesiastica (nota 3) della Chiesa fondata da Cristo, argomento questo di un’altra opera: 'De ecclesiastica hierarchia', appunto. Scrive Mons. Del Ton: Vi sono dunque tre gerarchie non disgiunte, ma intimamente legate tra loro in nove ordini, in modo che l’ordine del mezzo serva da intermediario tra il primo e l’ultimo a guisa di anello di catena. Questi ordini, per la loro posizione oltre alle perfezioni del loro grado gerarchico, possiedono eminentemente quelle degli ordini inferiori. Ciascun ordine profitta personalmente, nel grado che gli compete, della contemplazione illuminata ed illuminante della visione beatifica di Dio, e poi la comunica all’ordine inferiore, e questo al seguente e, via via, sino all’ultimo della scala. Così la comunione intellettiva ricolma d’amore acquista un’armoniosa e perfetta solidarietà corale. Ecco una terzina di Dante (Par., I, 1-3), quale esplicito compendio di questo concetto:
La gloria di Colui che tutto move
per l’universo penetra e risplende
in una parte più e meno altrove.

Infatti gli Angeli, simili a specchi trasparenti adatti a ricevere il raggio di luce del loro Creatore ed a rifletterlo a loro volta, fanno risplendere il volto di Dio di infinita maestà e bellezza, ciascun coro secondo le proprie capacità ed attitudini. Quindi all’irradiazione discendente della luce, della scienza e del bene divino, corrisponde l’illuminazione ascendente. I santi angeli hanno la proprietà di infiammare e di trasmettere effondendola, la sapienza tearchica, e la possibilità di capire la scienza altissima delle illuminazioni divine e quella proprietà che è dei Troni e che significa attitudine aperta alle recezioni del divino (De coelesti hierarchia, cap. XIII, 3). Secondo Dionigi gli Angeli hanno una funzione rivelatrice: loro ci avrebbero infatti dato la Scrittura ed avrebbero guidato gli autori sacri nello scrivere e nel profetare. Conoscere, quindi, diviene l’equivalente di partecipare alla luce di Dio e tale “partecipazione” sarebbe immediata per le prime categorie della gerarchia celeste (letteralmente Cherubini significa attitudine a conoscere e contemplare Dio).
Gli Angeli dunque sono mediatori tra Dio e l’Uomo: primi a conoscere i misteri del Verbo incarnato, passano a noi questa loro conoscenza. E noi, attraverso la loro opera, ci eleviamo man mano, partecipando alla medesima purificazione, illuminazione ed unione divina. Ecco perché più alta ed intensa è l’unione di comunione, più elevata diviene la gnosi.
Composizione dei nove cori:
a) ordine supremo: Serafini, Cherubini e Troni vivono all’ombra della divinità, elevandosi a Dio senza intermediari. Dimorano in un’immutabile santità e sono chiamati alla contemplazione e... “tra le gioie di una perenne conoscenza esultano nella meravigliosa fissità di quell’entusiasmo che trasporta gli angeli”. Iniziati dall’infinita carità di quella conoscenza dei misteri divini, li trasmettono beneficamente alle gerarchie inferiori.
b) ordine medio: Dominazioni, Potenze e Virtù ricevono la luce dall’ordine superiore, rendendosi così partecipi della divina conoscenza.
c) ultimo ordine: Principati, Arcangeli e Angeli rendono accessibile agli uomini la rivelazione divina, permettendo loro di elevarsi a Dio tramite la purificazione, l’illuminazione e l’unione. Questa triade insomma si occupa del nostro mondo.
Dionigi scrive testualmente: Secondo me, la gerarchia è nello stesso tempo ordine, scienza ed azione, conformandosi per quanto è possibile agli attributi divini e riproducendo, per mezzo dei suoi splendori originali, un’espressione delle cose che sono in Dio... Il fine della gerarchia è dunque di assimilarci e di unirci a Dio, che essa adora come signore e guida della sua scienza e delle sue sante funzioni (cap. III).
Interessantissimo lo scritto di S. Dionigi, che con i colori dell’alba e del fuoco, descrive in quindici capitoli la natura, l’ordine e le mansioni dei cori angelici: e sarà certo gradito ritrovare in quelle pagine rimembranze dantesche, poiché ogni verso del sommo poeta è come la condensazione ultraluminosa di molti concetti dello Pseudo-Dionigi.
Concludo, ricordando che il trattato di cui ho parlato costituì (e costituisce tutt’oggi) un testo di riferimento per tutti gli angelologi più eminenti: forse la sua rigorosa precisione fu semplificata solo da S. Tommaso, che distinse le gerarchie a seconda della loro elevazione soprannaturale e della visione intuitiva che Dio ha loro concesso, più che non dei doni naturali della loro specifica essenza. Ecco pertanto che la prima gerarchia conosce e apprezza le leggi divine, in quanto procedenti da Dio, il Principio Universale; che la seconda le coglie come dipendenti dalle cause universali create e che la terza le comprende così come sono applicate a ciascun essere e dipendenti da cause particolari. Ma continuando su questa strada ci addentreremmo in complesse riflessioni teologico-filosofiche, forse troppo ardue e specialistiche per il tono di questa rubrica.
Ci basti d’aver imparato almeno che il modo di essere e di agire degli Angeli deve servire di esempio a noi nel compimento della divina volontà, nella quale soltanto è nostra pace.

note
1) S. Paolo (Efesini, Colossesi, Tessalonicesi)
2) Genesi 3, 24; Ezechiele 10, 1-20; Isaia 6, 2-6.
3) Tre sono gli stadi da attraversare per attuare l’unione con Dio (purificazione, illuminazione, consumazione), simboleggiati nelle funzioni del diacono, del presbitero e del vescovo. Ma anche tra gli uomini vi sono tre ordini: i peccatori, il popolo santo ed i perfetti (monaci particolarmente).

I nove cori angelici
Tale fu il favore che incontrò la classificazione dello Pseudo-Dionigi, che persino l’illustre Alighieri se ne servì, porgendocene quella perfetta traduzione poetica che costituisce il XXVIII canto del Paradiso del suo capolavoro. Beatrice, dolce accompagnatrice, guida Dante – e noi con lui – alla scoperta di quegli esseri celestiali, osannanti Colui che muove il sole e le altre stelle... Il poeta ode il canto melodioso di quelle creature, tutte rivolte al “punto fisso”, della cui grazia vengono permeate: ed ecco, che per prime, gli vengono fornite spiegazioni sui Cherubini e sui Serafini. Già nell’Antico Testamento ritroviamo questi nomi, di per sè significanti: esaminiamoli.
Cherubini probabilmente deriva dall’accadico karabu, pregare, benedire. La tradizione biblica che li riguarda non risulta però unitaria: infatti, mentre Ezechiele (cap. 1 e 10) “vede” uscire da un nucleo di fuoco quattro esseri viventi (avevano sembianza umana. Ciascuno con quattro fattezze e quattro ali. I loro piedi eran diritti e la pianta dei piedi come quella del vitello; rilucevano come bronzo terso. Avevano mani di uomo sotto le ali, ai quattro lati... Le ali si congiungevano l’una con l’altra. Procedendo non si voltavano, ciascuno si muoveva diritto innanzi a sè. Quanto alla somiglianza dei loro aspetti, tutti quanti avevano fattezze umane, fattezze di leone alla loro destra, fattezze di toro alla loro sinistra e fattezze di aquila... Andavano là dove lo spirito li sospingeva; procedendo non si voltavano... Andavano e tornavano come folgore. 1, 6/14), in Genesi (3, 24) essi, posti all’est del giardino dell’Eden, pare non abbiano mani, poiché la spada fiammeggiante, a custodia della via dell’albero della vita, non risulta esser tenuta da alcuno di loro; e ancora, in Esodo (25, 20) sono descritti con una sola faccia ciascuno. Comunque, i Cherubini nell’Antico testamento sono esseri celesti, creature di Dio a Lui soggette, assistenti del Suo trono e Suoi particolari ministri: sono esseri superiori all’uomo e la loro essenza sovrumana è appunto resa visivamente dalla loro rappresentazione strutturale composita, in parte umana, in parte animale. Immediato è il ripensare alle raffigurazioni mesopotamiche degli esseri (sfingi) alati posti a guardia dei portali dei templi e forse anche  a quella divinità egizia conosciuta come Bes panteo (figura umana barbuta, caratterizzata da tre paia di ali, testa circondata da una corona di teste di animali e corpo completamente cosparso di occhi, strumenti dell’onniveggenza divina). Per concludere questa breve descrizione dei kérûbhîm (in ebraico) dobbiamo ancora dire che, al di là del loro aspetto, certo mutuato dalle divinità del pantheon accadico ed egizio, le ali che coprono il corpo simboleggiano il rispetto e la venerazione di questi esseri celesti innanzi alla santità del loro re; le altre ali, pronte al volo, esprimono la rapidità con cui ne eseguono gli ordini (Is. 6, 1). L’intelligenza ed il cuore dell’uomo, la forza maestosa del leone e quella selvaggia della natura (sottintesa nel “toro”) servono poi da sgabello al trono del Signore. È tra i Cherubini che Jahvé fa le Sue rivelazioni e da loro è “portato” nelle teofanie: sempre quindi essi rivelano Dio stesso, la Sua sapienza, la Sua maestà, la Sua forza e la Sua potenza. Dionigi l’Areopagita infatti spiega che il loro nome significa “pienezza di conoscenza” o “effusione di saggezza”, rivelando di per sè il loro potere di conoscere e contemplare la divinità, la loro attitudine a ricevere il dono di luce più alto, la loro capacità di riempirsi del dono della saggezza e di comunicarlo, senza invidia, agli spiriti di secondo ordine.
Non meno complessa è la problematica che riguarda i Serafini, anch’essi posti intorno al trono di Jahvé per proclamare incessantemente la Sua santità e signoria. Il loro nome, sempre a detta dello Pseudo-Dionigi, significherebbe “coloro che bruciano” (serafim, brucianti) o “coloro che riscaldano”: ecco dunque il calore, l’ardore, il ribollire di quel loro eterno movimento con valenza catartica, la natura luminosa inestinguibile, fugatrice di ogni oscurità. Isaia ci lascia una descrizione di questi esseri, per via di una sua visione avuta nel tempio di Gerusalemme nel 742 a.C.: Io vidi il Signore seduto su un trono alto ed elevato; i lembi del Suo manto riempivano il tempio. Serafini stavano sopra di Lui; ognuno aveva sei ali, con due si coprivano la faccia, con due si coprivano i piedi e con due volavano. Gridavano l’uno all’altro: Santo, santo, santo è Jahvé degli eserciti. Tutta la terra è piena della Sua gloria. (6, 1/3). È da ricordare che, nonostante il nome Serafini sia frequente nella letteratura e nella liturgia religiosa, questa è l’unica volta che la Bibbia li menziona. Etimologicamente il vocabolo sêrâphîn, che è connesso al verbo “bruciare, ardere” (sâraph in ebraico), indica anche il serpente, forse anche in riferimento alla cauterizzazione del morso velenoso: ma questa relazione è stata tanto affermata quanto confutata.
Il nome Troni invece sta’ a indicare la vicinanza al trono divino, sottintendendo pertanto l’essenza altissima di queste entità che ricevono direttamente ed immediatamente la perfezione e la conoscenza del loro Signore. Questi sublimi spiriti quindi trascendono in maniera pura qualunque vile inclinazione e si elevano in modo ultraterreno verso la Vetta per eccellenza. Lasciamoci ancora guidare da Dante per scoprire l’ordine intermedio delle celesti intelligenze: in questo “altro ternaro”, Dominazioni, Virtù e Potestà, perpetuamente cantano inni a Dio. Io credo – scrive Dionigi – che il nome rivelatore delle sante Dominazioni ci indichi la loro forza di elevarsi, che mai si sottomette, libera da ogni inferiore cedimento. Il nome delle sante Virtù significa coraggio saldo e integrità in tutte le attività, un coraggio che mai si stanca di accogliere le illuminazioni donate dal Principio divino, ma che è anzi potentemente teso all’imitazione di Dio. Quanto al nome delle sante Potestà, esso ci rivela la loro disposizione molto armoniosa nell’accogliere i doni divini, il carattere di potenza ultraterrena e intelligente, che non abusa tirannicamente delle sue potenti forze, ma che si eleva ed eleva con bontà i subordinati verso le realtà divine, e che tende ad assimilarsi al Principio della Potestà, fonte di ogni potestà, e che Lo riflette, per quanto è possibile agli Angeli.
Ecco infine la terza gerarchia, così come ce la presenta Dante:
Poscia né due penultimi tripudi
Principati e Arcangeli si girano;
l’ultimo è tutto d’angelici ludi.

Principati e Arcangeli costituiscono i due penultimi cerchi tripudianti, gli Angeli festanti, l’ultimo. “Dionisio”, come lo chiama l’Alighieri, che meglio di ogni altro conobbe le gerarchie celesti, ancora ci spiega: Il nome dei Principati ci indica che essi possiedono un carattere divinamente sovrano e un potere di comando, entro un ordine sacro che è il più consono a delle potenze sovrane e che con il buon ordinamento delle loro potenze sovrane, Lo esprimono come Principio ordinatore sovressenziale. Il santo ordine degli Arcangeli, per la sua posizione centrale nella gerarchia, partecipa ugualmente degli estremi. Tramite gli Angeli manifesta a noi (le potenze primarie), in proporzione alle sante attitudini di coloro che vengono divinamente illuminati. Con gli Angeli si completano tutti gli ordini delle intelligenze celesti. La loro gerarchia si occupa di ciò che è più manifesto ed ancora più delle cose di questo mondo. Per questo la Scienza divina ha affidato agli Angeli la nostra gerarchia.
Quindi in sintesi:
Primo Ordine: manifesta il mondo dello Spirito, l’Intelletto. Partecipa alla trascendenza divina ed inizia il secondo ordine. E’ immerso nella natura divina, contemplandola, illuminandosi ed ardendo di sapienza e scienza. La sua ricettività è elevatissima.
Secondo Ordine: manifesta il mondo dell’Anima, l'interiorità. Riceve la luce divina, anima ed ordina il mondo e lo riveste di bellezza. Combatte e vince definitivamente i demoni. E’ completamente teso ad un rafforzamento totale, ad un’elevazione spirituale assoluta. Ama di un amore universale.
Terzo Ordine: manifesta il mondo materiale ed esterno. È agente dell’economia divina verso l’umanità. Rivela i misteri insondabili di Dio, adoperandosi per la conformità alla volontà divina in tutto e per tutto. Si compone di messaggeri, interpreti, custodi della Nazioni e dei singoli individui.
Nonostante S. Paolo non fosse favorevole al culto degli Angeli, i cristiani confidano nell’affermazione di S. Agostino: Gli Angeli esistono, lo sappiamo attraverso la fede. Giovanni Paolo I li chiamava i grandi sconosciuti del nostro tempo e Giovanni Paolo II ha più volte ribadito che se ne discute con ignoranza: dubitare infatti della loro esistenza significa “rivedere radicalmente la Sacra Scrittura e con essa tutta la storia della Salvezza. Ecco perché dobbiamo cercare di conoscerli e di studiarli: essi sono la voce, l’orecchio ed il braccio di Dio. Gesù stesso dice: Gli Angeli nel cielo vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli (Mt. 18, 10) e il pontefice non ha mancato di sottolineare che questo “vedere” è la manifestazione più alta dell’adorazione di Dio.
La perfezione del Creatore si rispecchia in loro, inviati per servire coloro che devono entrare in possesso della Salvezza (Lettera agli Ebrei 1, 14).

I tre Arcangeli

San Paolo, probabile autore della Lettera agli Ebrei, nell’affermare la supremazia del Figlio sugli Angeli, scrive (1,14): Non sono tutti spiriti incaricati di un ministero, inviati in servizio, a vantaggio di coloro che hanno da ereditare la Salvezza? E chi meglio degli Arcangeli assolve questi compiti? La Chiesa di Roma onora con culto liturgico il 29 settembre le tre figure di Arcangeli, che sono chiamati per nome nelle Sacre Scritture: Gabriele, Michele e Raffaele (nota 1). E si potrebbe avere l’impressione che tutto il lavoro del cosmo gravi sulle loro spalle. Michele sopra ogni altro si distingue per la sua carità spirituale nel combattere la superbia di Lucifero, Raffaele per la carità materiale, Gabriele per la carità intellettuale (dal vol. di Mons. Del Ton, pag. 126). Vediamo allora di approfondire in modo particolareggiato queste tre splendide creature.
Gabriele è l’Arcangelo soprattutto legato al mistero dell’Incarnazione del Figlio di Dio e ai lieti annunci. Il suo nome significa “La mia potenza è Dio”. Questo dolcissimo essere, spesso raffigurato come un giovane dal viso femmineo e con ali estremamante elaborate, interviene dunque come messaggero di nascite prodigiose molto speciali e certo non comuni: appare infatti ad Abramo, per annunciargli che la sua se pur anziana Sara finalmente gli darà quel figlio invano atteso per tanti anni, e, molto tempo dopo, torna sulla Terra per un motivo simile, apparendo a Zaccaria, futuro padre del Battista. Zaccaria, come già Sara, reagisce con l’incredulità di fronte a tale straordinaria notizia ed entrambi saranno puniti, per aver dubitato, con un mutismo protratto fino al giono in cui avverrà quella nascita ritenuta impossibile. Ed ancora, proprio a Gabriele sarà affidato il delicatissimo incarico di annunciare alla Vergine Maria, l’evento magnifico ed unico che muterà la Storia: la venuta al mondo di un bimbo di nome Gesù. “Nulla è impossibile a Dio” (Lc. 1,37) e Maria è beata perché ha creduto, come Le dice la vecchia cugina Elisabetta. Ha creduto alle parole dell’Arcangelo, che, con una certezza che non dava adito a dubbi, Le aveva placato quel suo umanissimo turbamento: “Lo Spirito Santo scenderà su di Te, su di Te stenderà la Sua ombra la potenza dell’Altissimo” (Lc. 1,35). Quel modo di parlare lasciava chiaramente intendere che a Maria stava per essere affidata una missione singolare, ma assolutamente proporzionata a quei doni che Dio Le aveva elargito. E quando l’Angelo se ne andò da Lei, ancora riecheggiava nell’aria la celebre risposta: “Ecco l’ancella del Signore, mi accada secondo la Tua parola” (Lc. 1,38). Ma Gabriele oltre ad annunciare, sa anche insegnare che aver fede equivale a fidarsi totalmente di Dio, dei Suoi progetti, delle Sue parole, delle Sue richieste: infatti è lui che ferma la mano di Abramo già stesa sul piccolo Isacco; è lui che fa sgorgare l’acqua nel deserto per dissetare Ismaele, figlio di Agar; è lui ancora ad avvertire Giuseppe di scappare in Egitto, con la sua famiglia, per sfuggire all’ira di Erode. E Gabriele è anche protagonista del Libro di Daniele (8,15) in veste di colui che spiega la visione avuta dal profeta: l’Angelo è infatti presentato come “uomo di Dio”, che scende appositamente sulla Terra proprio per render comprensibile una profezia allusiva alla venuta del Messia. Gabriele è dunque colui che viene per aprire la mente dell’uomo alla comprensione, colui che annuncia e colui dal quale promanano le sconfinate schiere degli Angeli Custodi.
Raffaele, il cui nome significa “Dio guarisce”, si incontra nel Libro di Tobia, ricco di insegnamenti morali che fanno di questo testo un interessantissimo codice delle piccole virtù della vita delle persone umili. Tobia – che in ebraico significa “buono” – figlio di Anna e del pio israelita Tobit, fu condotto con la sua famiglia in esilio a Ninive. Il padre, dopo un periodo di favore agli occhi del re Salmanassar, cadde in disgrazia: dopo una breve fuga tuttavia ritornò e riottennne il favore del nuovo re Assarhaddon. Un giorno però divenne cieco, perché avendo dormito fuori di casa, essendo impuro a causa della sua attiva partecipazione alla sepoltura di un morto, le rondini gli avevano fatto cadere sugli occhi escrementi caldi; ma, anche ridotto in questo misero stato, continuò a essere un uomo pio, se pur sfiduciato. Intanto ad Ecbatana, città della Media, Sara, una giudea, pur essendosi sposata sette volte aveva visto morire tutti e sette i suoi mariti la prima notte di nozze, perché Asmodeo, il demonio (“colui che fa morire”), glieli uccideva: la ragazza disperata, perché accusata d’esser lei stessa quasi causa di una simile sciagura, non voleva più vivere. Ed ecco intervenire Raffaele, per liberare i due afflitti di questa storia: l’Angelo, con la forza che gli viene da Dio, è per sua stessa ammissione “uno dei sette Angeli che portano lassù le preghiere dei Santi e sono ammessi davanti alla gloria del Santo” (Tb. 12,15). Ma vediamo come continua il racconto: Tobia fu mandato dal padre in una città della Media, a ritirare dieci talenti d’argento che Tobit aveva depositato tempo addietro presso un tale Gabael. Raffaele si offrì come compagno di viaggio, presentandosi però come un certo Azaria. Lungo la strada Tobia fa un bagno nel Tigri ed un grosso pesce – forse un luccio – per poco non lo divora: Raffaele gli consiglia di catturarlo e di conservarne il fegato, il cuore ed il fiele come medicamento. I due viandanti giungono così ad Ecbatana e Tobia finisce per chiedere la mano di Sara: fissata la data delle nozze, Raffaele, dapprima prepara un esorcismo bruciando il cuore ed il fegato del pesce, scacciando Asmodeo in Egitto e permettendo la celebrazione del matrimonio, poi va a ritirare il denaro da Gabael. Quindi si fa ritorno a Ninive: Tobit viene guarito dalla cecità grazie al fiele del pesce, Azaria manifesta la sua vera natura e poi scompare, Tobia si trasferisce ad Ecbatana, dove morirà vecchissimo ed erede delle fortune del suocero. L’intero racconto è costruito per ribadire e raccomandare l’osservanza della Legge ebraica e la pratica delle opere pie, oltre che per dimostrare come la Provvidenza divina non manchi mai, nemmeno in questa vita terrena. Raffaele dunque conforta, infonde speranza, sana, accompagna, insegna ispirando azioni buone e giuste, che aiutano gli uomini a realizzarsi secondo il progetto di Dio.
Michele: nel suo nome Mica-El, cioé “Chi come Dio”, si trova espressa la scelta salvifica - e sono queste parole del Papa - grazie alla quale gli Angeli vedono la faccia del Padre che è nei Cieli. S. Gregorio Magno di lui scriveva: “Quando deve compiersi qualcosa che richiede grande coraggio e forza, si dice che è mandato Michele perché si possa comprendere, dall’azione e dal nome, che nessuno può agire come Dio”. È questo il Principe degli Angeli, l’Angelo “preposto al popolo eletto” (Dn. 10,21), il difensore-guerriero che, indossando l’armatura e brandendo la spada, guida la battaglia contro Satana. Nell’Apocalisse la sua figura è decisamente carica di forza e determinazione: nel combattere il Drago, egli anche oggi combatte per Dio e per la Chiesa, di cui è particolare protettore. Michele è anche generalmente identificato con l’Arcangelo evocatore dei morti nel giorno del Giudizio: spesso infatti vien rappresentato con la bilancia della Giustizia, nell’atto di pesare le anime e decidere pertanto la loro sorte. Il fatto che gli siano state dedicate tante Chiese e Cattedrali è significante di quanto sia sempre stato prediletto e venerato dagli uomini: a questo bellissimo capitano delle milizie celesti, che trafigge la Bestia ma squarcia anche le tenebre, fu dedicato un santuario a Costantinopoli – il Michaelion – per volere di Costantino, convertitosi al cristianesimo dopo aver avuto la famosa visione della croce fiammeggiante in cielo, recante la scritta “In hoc signo vinces”. Da allora si moltiplicarono i luoghi di culto dedicati all’Arcangelo splendente di luce, sia in Oriente che in Occidente, tanto che è possibile tracciare su una carta geografica un’incredibile quanto misteriosa linea che unisce i siti in cui si sarebbe manifestata nei secoli la sua presenza: dallo stupefacente isolotto che emerge, come per magia, dalla marea di Normandia e Bretagna, Mont Saint-Michel, alla Sacra di S. Michele alle porte di Torino, luogo suggestivo ed arcano che la leggenda vorrebbe esser stato consacrato direttamente da S. Michele e dalle sue legioni; da Monte S. Michele nel Gargano, dove su un blocco di marmo si sarebbe impressa l’orma dei piedi dell’Angelo (nota 2) a Delfi e Delos in Grecia, fino al Monte Carmelo in Israele, costruito sulla roccia di Elia. Nelle chiese romaniche è frequente trovare una cappella dedicata all’Arcangelo e così pure non insolito è l’uso di adornare la cuspide dei campanili con la statua di Michele, in segno di vigilanza, difesa, vittoria. La devozione a S. Michele invita all’amore, alla verità che salva, alla fedeltà verso la Chiesa che è maestra. Essere con la Chiesa, sempre! S. Michele ci sproni a combattere l’errore con una chiara testimonianza di fede ed a promuovere con ogni mezzo la verità, affinché la parola di Dio sia glorificata e si diffonda in ogni luogo: queste parole del vescovo di Manfredonia, Mons. Valentino Vailati, ben si adattano a sottolineare l’importanza di questo Arcangelo, cui è persino stata dedicata un’associazione culturale-religiosa denominata “Milizia di S. Michele Arcangelo”. Appartengono a questo sodalizio uomini di preghiera ardente, che serberanno nelle loro case, in una stanza ornata di fiori gialli ed azzurri (colori simbolici della divinità mariana), la Croce vittoriosa di Costantino, un’icona della Madonna ed il volume della Bibbia, aperto al cap. XII dell’Apocalisse, ove è descritta la lotta contro Satana. Non dovrà mancare l’acqua benedetta. Nell’invocare S. Michele si dovrà anche sempre pregare per i nemici.
note
1) Negli Apocrifi compaiono molti altri nomi: Raguele, Sarcoele, Uriele... Sempre con quell’-Ele finale che è l’eco del nome divino ebraico El, il Dio dei Semiti di cui essi sono messaggeri. Secondo la tradizione rabbinica nel Pentateuco, sarebbero nascoste le indicazioni dei nomi segreti (nei 72 versetti del cap. 14 dell’Esodo, ognuno dei quali composto da 72 lettere).
2) A S. Angelo Fasanella, nell’entroterra di Paestum, invece sarebbe rimasto impresso il calco delle sue ali sulla roccia della grotta.

Gli angeli  nell’Antico Testamento
Le Sacre Scritture affermano l’esistenza di quegli esseri spirituali ultraterreni chiamati angeli, invitando a leggerla in rapporto allo sviluppo della storia della Salvezza. Anche la stessa concezione biblica degli angeli muta progressivamente, subendo una graduale chiarificazione dall’Antico al Nuovo Testamento proprio in funzione della Rivelazione. Provo qui ad esaminare separatamente questa diversa concezione angelica, considerando la sola tradizione ebraica e veterotestamentaria.
Se pure non esista una vera e propria angelologia dell’Antico Testamento, per la religione di Israele, che perfezionò e completò le “intuizioni” prese a prestito dalle altre culture antiche contemporanee, tra un Dio trascendente e quasi inaccessibile e gli uomini che l’ascoltavano spesso intimoriti, si collocavano appunto quegli intermediari celesti, inviati e messaggeri, indicati dal termine ebraico mal’ak, tanto simile al verbo arabo la’ak: mandare uno con un incarico. Dio perciò stabilisce un contatto con il Suo popolo attraverso i Suoi messaggeri, aventi la funzione precisa di comunicare la Sua parola, la Sua presenza e le Sue azioni. Gli Ebrei, infatti, fin da quando credettero in Jahvé, Unico Dio residente nel più alto dei cieli - sull’esempio dei più grandi monarchi del tempo - Gli attribuirono una corte di messaggeri e ministri, in numero e qualità a Lui convenienti. Non a caso quindi gli angeli sono miriadi, innumerevoli come le stelle del cielo, e per la loro natura appartenenti alla divina sfera celeste, resi partecipi da Dio, per cui portano gli appellativi di “santi” (Deut. 32,2; Giobbe 5,1; Sal. 89,6...), “potenti” (Sal. 103,20), “figli di Dio” (Gen. 6,2; Giobbe 1,6; Sal. 29,1...). Ma, di fronte a Dio, comunque è impossibile ed impensabile qualunque confronto e la distanza tra Lui e le Sue pur magnifiche creature resta incommensurabile (Es. 15,11: Chi è pari a Te tra gli dei, Jahvé? Chi è pari a Te, glorioso in santità, terribile nelle gesta, operatore di prodigi? ): ecco dunque che, visti in quest’ottica anche gli angeli appartengono alla sfera del finito e dell’imperfetto (Giobbe 4,18: “Nei suoi angeli trova difetti”; 15,15: “Se neppure dei suoi santi egli è sicuro”), proprio come noi uomini, che saremmo poco meno di loro, stando al Sal. 8,6: “lo (l’uomo) hai reso poco da meno di Dio; di gloria e di splendore lo hai coronato” (nota 1). Ma gli angeli, quando sono in terra possono assumere le sembianze ed i costumi degli uomini: come loro mangiano, bevono, toccano, camminano... anche se resta sempre evidente la loro essenza spirituale, poiché, diversamente dagli uomini, la loro persona può in una frazione di secondo superare le distanze, comparire e sparire improvvisamente. Inoltre colpisce la loro natura luminosa (vd. l’angelo della visione di Daniele, 10,5-7: ... alzai gli occhi e guardai: ed ecco un uomo vestito di lino, con le reni cinte di oro dell’Ufaz. Il corpo era come topazio, il volto come l’apparire del fulmine, gli occhi come torce infiammate, i piedi come lo scintillio del bronzo forbito ed il suono delle parole come il clamore di una moltitudine...), quella stessa natura cioè della gloria di Dio (nota 2).
Per quanto riguarda gli uffici degli angeli si potrebbe tentare di schematizzarli così:
a) lodare il Signore: i “figli divini” (benê’elohîm) - come nel Sal. 29 di David - membri dell’eccelsa famiglia celeste, adornati di splendidi paramenti, celebrano la potenza e la gloria del Signore, prostrandosi davanti a Lui adoranti e vibranti in totale assenso di dedizione e cantando in un melodioso concerto le Sue lodi e le Sue benedizioni (nota 3).
b) assistere Jahvé nel governo del mondo, essendo i Suoi ministri: infatti schiere di queste eccelse creature si adunano attorno al Suo trono, Gli riferiscono relazioni e proposte, ricevono i Suoi ordini, realizzano gli incarichi loro affidati annunciando la divina volontà e comunicando la Sua parola, interpretando le Sue visioni, richiedendo agli uomini disponibilità ed obbedienza, quali espressioni manifeste di fede al loro Signore. Dobbiamo a Giacobbe (Gen. 28,12) l’immagine della famosa “scala”(nota 4) usata dagli angeli per scendere sulla terra per adempiere ai loro uffici e per portare a Dio le preghiere degli uomini. “Sognò di vedere una scala che poggiava sulla terra, mentre la sua cima raggiungeva il cielo; ed ecco gli angeli di Dio salire e scendere su di essa”. In quanto fedeli ministri di Dio però, gli angeli talvolta non possono avere solo effetti benefici sull’uomo, dovendo castigare gli empi (come a Sodoma e Gomorra) ed i nemici di Israele: ecco l’angelo “accusatore” e “tentatore” del racconto di Giobbe, quello “distruttore” che colpisce i primogeniti d’Egitto (Es. 12,29), quello che diffonde la “peste” a Gerusalemme (2 Sam. 24,16), lo “spirito dell’inganno” di Ecclesiastico 39...
c) formare l’esercito celeste di Jahvé, il possente e prode “Dio delle battaglie”, Jahvé Sabaoth (Sal. 24, 8-10; Os. 12,6; 1 Sam. 1,3... ). Le Sacre Scritture ci presentano infatti il Suo esercito composto da forze aeree (venti, tempeste, fulmini e tuoni), terrestri (le schiere di Israele) e celesti, gli angeli appunto, comandate da un generale supremo (Giosué 5,14).
Molto più che semplici messaggeri dunque, gli angeli rappresentano la sfolgorante manifestazione di una sovranità universale, oltre a custodire, reggere e proteggere gli uomini accompagnandoli, guidandoli, interpretando per loro le visioni, trasmettendo le loro preghiere, intercedendo davanti a Dio per i loro peccati, regolando lo spazio ed il tempo, ed anche il destino delle Nazioni oltre che (all’occorrenza) impersonando la terribile collera di Jahvé. § 332 Catechismo: Essi, fin dalla creazione e lungo tutta la storia della salvezza, annunciano da lontano o da vicino questa salvezza e servono la realizzazione del disegno salvifico di Dio: chiudono il paradiso terrestre, proteggono Lot, salvano Agar ed il suo bambino, trattengono la mano di Abramo, comunicano la Legge, guidano il popolo di Dio, annunziano nascite e vocazioni ed assistono i profeti (nota 5). Nell’Antico Testamento pertanto Dio e l’uomo sono gli estremi entro cui gli angeli, ministri di Dio e mediatori con gli uomini, devono esser descritti e compresi.
Va ancora puntualizzata una nota importante, cioè che all’angelologia veterotestamentaria sottostanno due concezioni: quella del monoteismo (che a sua volta postula quella della creaturalità degli angeli, “sempre” soggetti al loro Creatore) e quella dell’apocalittica (in cui il mondo appare lo scenario storico entro cui agisce l’umanità nell’attesa dell’evento finale: la parusia di Cristo). Gli angeli non possono mancare - asserisce l’eminente teologo Hans Urs Von Balthasar nella sua opera maggiore “Gloria” - in primo luogo perché fanno parte della gloria celeste del Figlio dell’Uomo, ma in secondo luogo e soprattutto perché devono render visibile il carattere sociale del Regno dei Cieli, nel quale il Cosmo deve esser trasformato.

note
1) David, autore di questa celebrazione della grandezza e della bontà di Dio, si stupisce perché Dio si “ricorda” e si “interessa” dell’uomo, collocandolo al di sopra della creazione materiale dandogli l’intelligenza, che lo costituisce appunto immagine di Dio stesso.
2) Natura simile a quella delle stelle, le quali secondo alcuni testi (per es. Giudici 5,20; Giobbe 38,7; Is. 14,12...) sarebbero per l’appunto figure angeliche che, mentre dal firmamento attendono alle loro mansioni celesti, ci appaiono in tutto il loro intrinseco splendore.
3) Anche Isaia (cap.6) ci testimonia di aver assistito, durante una visione, a tali acclamazioni riferite a Dio, assiso su un inaccessibile trono: “Santo, santo, santo è Jahvé degli eserciti. Tutta la terra è piena della Sua gloria”.
4) La scala, porta del cielo, è la raffigurazione concreta della Provvidenza divina.
5) Il virtuoso Giobbe; Elia nella sua fuga nel deserto; Isaia durante la sua consacrazione; Daniele nella fossa dei leoni; Tobia nel suo pericoloso viaggio; Ezechiele nelle sue ardenti teofanie...

© all rights reserved
Bibliografia
• Enciclopedia Treccani alla voce “Dionigi Aeropagita, Pseudo”
• S. Dionigi l’Areopagita, “La Gerarchia celeste”, Giannini ed., Firenze, 1929
• “La Sacra Bibbia”, ed. Marietti, Milano, 1961
• “Catechismo della Chiesa Cattolica”, Libreria ed. Vaticana, 1992
• R. Lavatori, “Gli Angeli”, Marietti, Genova, 1991
• P. Giovetti, “Angeli”, ed. Mediterranee, Roma, 1989
• P. Faure, “Gli Angeli”, ed. Paoline, Cinisello Balsamo, 1991
• M. Pia Giudici, “Gli Angeli”, Città Nuova ed., Roma, 1984
• G. Del Ton , “Verità su Angeli e Arcangeli”, Giardini ed., Pisa, 1985
• G. Dembech, “Gli Angeli fra noi”, ed. l’Ariete, Settimo Torinese, 1994
• G. Ravasi, A. Rovetta, “Angeli, spiritualità e arte”, Mondadori, Milano, 1996
• M. Bussagli, “Storia degli Angeli”, Rusconi, Milano, 1995
Back to Top